Alluvioni, una verità scomoda

Frane, alluvioni e altri eventi catalogati come estremi sono i segni manifesti del cattivo rapporto che la civiltà tecnologica e industriale ha instaurato con il territorio, i sintomi di una grave malattia che affligge il nostro e altri Paesi che ricadono nell’area del benessere e della democrazia. Morte, distruzione e danni incalcolabili sono il prezzo da pagare per la violenza arrecata alla natura, perpetrata all’unico scopo di spremere al Pianeta tutte le sue risorse e fare soldi per la sospirata conquista del decoro piccolo borghese. Alla luce di queste considerazioni quanta tenerezza suscitano i nostri avi, che hanno vissuto in mille ristrettezze e ora ci fissano con sguardo innocente da vecchie foto ingiallite! Essi avevano imparato a tenersi a rispettosa distanza dai corsi d’acqua e a non invadere gli spazi di pertinenza fluviale, considerati sacrari della natura, dove le acque potevano scaricare la loro forza senza arrecare danno a cose o persone. Erano in gran parte agricoltori e contadini, dotati di un forte senso comunitario e di un legame indissolubile con l’ambiente e, per queste ragioni, riuscivano a domare le acque, creando forme di paesaggio rispondenti alle più diverse esigenze: sicurezza e difesa collettiva, bellezza paesistica, freschezza e regolarità del microclima, produttività delle coltivazioni e degli allevamenti. Se accadevano episodi alluvionali, fiumi e torrenti lentamente rientravano nei loro alvei e più rari erano gli eventi catastrofici. Oggi, invece, le montagne si spopolano, le frane avanzano, i muretti a secco si sgretolano e le antiche sistemazioni agrarie cadono in rovina, mentre in pianura le attività umane assediano le valli fluviali, al fine di guadagnare nuove aree alla residenzialità, all’industria e al commercio e sfruttare il suolo come motore di affari e ricchezza. Questi processi spiegano perché gli eventi estremi sono sempre più frequenti e sempre più catastrofico l’impatto ambientale. In sintesi, distruggiamo in modo consapevole quanto i nostri padri con tanta fatica e tanta passione hanno costruito nel corso dei secoli. Esperti, agronomi e ambientalisti valutano che, per mettere il territorio in sicurezza, vale a dire riparare i danni ed eseguire le necessarie opere di prevenzione, occorrono secondo stime indicative poco meno di 3 miliardi di euro l’anno per un periodo di 15 anni. Non è una somma astronomica come si vuole far credere, se si pone mente al fatto che, secondo recenti indagini, truffe e ruberie sottraggono all’erario 5 miliardi di euro l’anno, mentre la corruzione provoca un danno annuale di 60 miliardi, pari alla metà di quello subito dall’intera Unione Europea. L’Italia affonda nei debiti e il Governo a stento riesce a raggranellare per il risanamento del territorio una manciata di milioni, con il risultato che poco meno della metà dei Comuni lombardi è inchiodata a un rischio idrogeologico con livello di attenzione elevato o molto elevato.Dovrebbe essere chiaro che cosa fare per evitare frane e alluvioni, ma le numerose casistiche documentate dalla stampa mostrano con altrettanta chiarezza che gli interventi della pubblica amministrazione vanno in direzione contraria alla logica e al buon senso. Bastano due esempi. 1. I Piani di governo del territorio (Pgt), approvati dopo estenuanti discussioni e ipocrite contrapposizioni, prevedono quasi sempre un aumento demografico assolutamente sproporzionato alla crescita effettiva della popolazione, facendo lievitare la domanda di case e causando uno spreco ingiustificato della risorsa suolo. Lo stesso vale per il Comune di Lodi che prevede nel Pgt la costruzione di quartieri residenziali anche in borghi rurali di interesse storico come l’Olmo e a spese di terreni agricoli. 2. Si spendono molti soldi per ingabbiare i fiumi entro argini più alti e robusti, invece di lasciar loro gli spazi vitali. Nel nostro caso, il Comune di Lodi ha espresso la determinazione di estendere la cintura urbana all’Oltreadda, compresa l’area dismessa occupata un tempo dalla Società italiana cementi (ex-Sicc). Si tratta di un’area a rischio esondazione, dove la conversione edilizia dei suoli è subordinata a un complesso progetto di potenziamento delle difese idrauliche. Non dubito della professionalità e della buona fede di funzionari, tecnici e singoli operatori, ma non posso scacciare il sospetto che si vogliono rafforzare gli argini non per fermare le esondazioni, ma per dare il via alle costruzioni dove non si dovrebbe costruire. E’ constatazione generale che la globalizzazione esercita sui suoli e sulle altre risorse una pressione enorme, tale da portare all’annientamento degli equilibri naturali. Forse sarebbe il caso che i pubblici amministratori raccontassero una scomoda verità: la visione privatistica del suolo e dell’economia che contraddistingue il nostro tempo e permea l’intera classe dirigente non porta al risanamento dell’ambiente ma alla sua irreparabile rovina.

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