Ai presidi arroganti manca il buon senso

C’è un problema che merita di essere approfondito e non solo perché salito alla cronaca grazie ad alcuni studenti di un Liceo Artistico della capitale, ma anche perché mette in risalto gli errori che alcuni commettono pur consapevoli delle conseguenze a cui si potrebbe andare incontro. Quanto poi a chi li commette si può tranquillamente dire che non c’è conseguenza più deleteria per i ragazzi di quella causata dalla consapevolezza che certi effetti negativi possono avere sul piano educativo. E’ il caso di una mia collega di un istituto superiore romano, arrogante quanto basta per scatenare reazioni provenienti da ogni parte, ma nello stesso tempo temeraria nel non rivedere le posizioni assunte, ritenendole incompatibili con il ruolo di cui un preside è investito. A quale poi ruolo la mia collega siriferisca è tutto da capire. E veniamo ai fatti. Al Liceo Artistico Statale «Via di Ripetta» a Roma con il nuovo anno scolastico prende servizio una nuova preside e questo può essere un aspetto salutare se consideriamo che idee, stimoli e motivazioni possono trovare proprio nel ricambio l’occasione buona per ridare vigore all’azione didattica. Oggi viviamo un periodo in cui si parla molto, talvolta a sproposito, di rottamazioni, rottamati e rottamatori e questo vale anche per la scuola che nei prossimi anni vivrà il più fecondo periodo della sua storia in fatto di ricambio generazionale sia a livello di insegnanti che di presidi. E fin qui niente da eccepire. I problemi nascono quando qualcuno crede di ritenersi l’unico depositario della verità e quindi l’unico in grado di riportare ordine là dove ritiene di aver trovato disordine, di presentare la propria esperienza come l’unica valida pur sapendo che l’arricchimento professionale si completa solo se condiviso e confrontato con gli altri, solo se si valorizza l’esistente. Qualcosa del genere è accaduto in questa scuola. La collega appena arrivata, presa da superba consapevolezza di se stessa, senza confrontarsi con docenti, studenti e famiglie decide di prendere particolari iniziative che toccano persino l’organizzazione dell’istituto. Mi sembra di vedere Eraclito quando viene descritto come uomo superbo e arrogante al punto da vantarsi di non mai aver avuto dei maestri. E in effetti allorché chiamato a confrontarsi con qualcuno era solito dire: «Aspettate un momento che vado a interrogare me stesso». Va da sé che un atteggiamento del genere se si fa storico in quanto riportato come aneddoto di vita di un grande filosofo, si fa pericoloso quando viene messo in pratica da un preside che non dovrebbe mai ignorare il contesto in cui lavora. Apportare il proprio contributo frutto di una maturata esperienza o di una preparazione professionale accompagnata da una specifica visione culturale può rappresentare una singolare e preziosa occasione, ma mettere tutto in discussione, anteporre sempre la propria opinione, sminuire il lavoro degli altri, dimenticando che lo stesso porrebbe essere stato frutto forse di una partecipata mediazione, è un atto arrogante e privo di razionalità, foriero solo di tensioni e ribellioni. Ed è proprio quello che è accaduto in questa scuola. Le decisioni prese dalla nuova preside, dopo aver «interrogato solamente se stessa», hanno avuto conseguenze dirompenti. Ma cos’ha deciso di così pesante la mia collega tanto da ritrovarseli tutti contro? Ha istituito la settimana corta senza ascoltare il parere di studenti, docenti e genitori; ha distribuito le ore di lezione pomeridiane senza consultare i docenti; ha messo in discussione determinati progetti legati a una più razionale distribuzione oraria; ha deciso di non rispondere alle numerose lettere di richiesta di chiarimenti ricevute. Sono comportamenti che non vanno bene in un qualsiasi contesto lavorativo, men che meno nella scuola. Gli studenti non possono essere messi alla porta, non possono essere considerati degli estranei, non possono essere considerati incapaci di dialogare. Se coinvolti e responsabilizzati sono in grado di dimostrare il loro personale apporto ricco di idee e motivazioni utili al confronto. Escluderli è un modo come un altro per fuggire dalle proprie responsabilità per rifugiarsi in un aureo isolamento che non porta da nessuna parte. I primi a ribellarsi sono stati proprio gli studenti che hanno pensato bene di informare la stampa dell’accaduto. E lo hanno fatto nella maniera più corretta che si possa immaginare, scrivendo una lettera ricca di riflessioni dove emerge l’amore per la loro scuola, ora messa in discussione. «Siamo studenti del quinto anno del Liceo di via Ripetta – scrivono i ragazzi - . Siamo confusi, disorientati dall’alone di mistero e di apparente disinteresse nei confronti di questa scuola che te la fanno apparire come un muro da abbattere per andare oltre. Nessuna possibilità di usare l’unico strumento che possediamo per esprimere la nostra opinione: la parola». E’ solo uno dei passaggi della lettera che ritengo meritevole di sottolineatura. Un passaggio dove prevale il disorientamento per un atteggiamento che spinge indietro la scuola nel tempo. Un passaggio che non lascia liberi di abbandonarsi ad alcuna interpretazione. Sono ragazzi che si sentono fortemente legati alla loro scuola, che la vorrebbero più vicina anche ai loro insegnanti e in questo non si sentono dei privilegiati. Amare la propria scuola non vuol dire essere solamente bravi, vuol dire anche sentirla parte integrante del proprio mondo, vuol dire sentirla come una piccola o grande comunità fatta di rapporti aperti e rispettosi. Per i prof di Via di Ripetta la preside con il suo atteggiamento arrogante ha rotto quel necessario e tradizionale equilibrio che non deve mai mancare in una scuola allorquando a precise norme da rispettare, corrispondono comportamenti storicamente consolidati e come tali da conservare. Sono prof che col tempo hanno scelto di liberarsi dalla routine e dal fascino del «cupio dissolvi», ovvero «dal desiderio di autodistruzione» per rimettersi in gioco. Hanno scelto di confrontarsi con gli studenti ben disposti a loro volta a non considerare la scuola una perdita di tempo. Infine i genitori che hanno visto nelle innovazioni unilateralmente imposte e apportate, un tentativo di esautorarli dal dialogo quale metodo relazionale visto come mezzo e strumento partecipativo. La mia collega ha commesso un grave errore. Avrà mai il coraggio di ammetterlo?

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