Agricoltura, il futuro è molto buio

L’agricoltura italiana - e lodigiana - è in ginocchio, sospesa tra la voglia di rialzarsi e il timore di ricevere il colpo di grazia. In troppi settori sta andando troppo male, e la carenza di soluzioni valide contribuisce a vedere la situazione come un tunnel senza uscita.È di questi giorni la protesta dei peschicoltori romagnoli che regalano cassette di frutta davanti al palazzo della Regione: il prezzo delle pesche è talmente basso che la raccolta significa automatica perdita di soldi da parte degli agricoltori. Nel Veronese, altra zona vocata alla peschicoltura, si è arrivati al prezzo record – in negativo – di 17 centesimi al chilo: inutile sottolineare che poi lo stesso prodotto si trova in vendita nella grande distribuzione a prezzi anche dieci volte superiori.Nel Lodigiano sono sempre più numerosi coloro che coltivano il mais non per scopi alimentari, ma per trasformarlo in energia negli impianti di biogas, costruiti dalle stesse aziende. Vacche da latte, addio.È di qualche mese fa il grido accorato degli allevatori di maiali: il prezzo della carne al chilo è di molto inferiore a quello della benzina al litro; il mercato dei prosciutti crudi – che richiedono suini di stazza grande, i più allevati in pianura Padana – è in difficoltà; la concorrenza estera – anche qui – mette in ginocchio la produzione nostrana. Nemmeno da citare poi il settore latte. L’ultima mazzata è stato l’acquisto di Parmalat da parte del colosso transalpino Lactalis, che si troverebbe ad acquistare latte italiano a costi superiori a quello tedesco, ad esempio. La tentazione di tenere il marchio e “riempirlo” di prodotto estero deve essere forte, se per lo storico marchio friulano Torvis (storico fornitore di Parmalat) si è tornati recentemente a parlare di chiusura. Con evidenti danni mortali per gli allevamenti della Bassa friulana.Né gira tanto meglio per i caseifici, in particolare per chi produce pregiati formaggi da grattugiare: forti investimenti in soldi e tempo, prezzi da depressione. E in Emilia non si contano più le chiusure. Aria triste pure per un’olivicoltura che sopravvive grazie alle sovvenzioni comunitarie; per una tabacchicoltura che chiude i battenti proprio per la cessazione delle sovvenzioni; per le ciliegie il cui prezzo quest’anno è sceso in picchiata anche per la mortale concorrenza delle cugine turche. Infine per la viticoltura, vero asso portante dell’agricoltura italiana: la crisi economica ha fortemente inciso pure qui. Più di una cantina sociale e di un grande produttore si trovano in difficoltà: di vendite, di prezzi. Figuriamoci i piccoli, le realtà più fragili e meno capaci di affrontare un mercato depresso.Si potrebbe continuare, ma la vera domanda è questa: è un momento-no, oppure si tratta di una congiuntura strutturale? Un po’ la prima, molto la seconda. L’intera agricoltura europea, e l’italiana v’è dentro, sta in piedi grazie alle sovvenzioni comunitarie, ad una forma di protezionismo che mette fuori gioco produzioni estere più competitive (quelle africane, ad esempio) e mantiene in vita un settore che pesa poco sui Pil nazionali, ma moltissimo sul mantenimento di un ambiente che non ha solo valenza estetica, ma anche “infrastrutturale”. Lo spopolamento delle montagne ha portato, ad esempio, all’incuria delle stesse e a conseguenze dannose e nefaste quali le frane.L’Italia paga poi pegno ad una proprietà agricola quanto mai frammentata (pochi ettari per ogni azienda, con costi proporzionalmente superiori alla concorrenza estera), e quindi all’incapacità di fare quel “sistema” che ha invece fatto la fortuna, ad esempio, dell’ortofrutta spagnola. La globalizzazione – cioè la reale concorrenza quotidiana con prodotti provenienti da mezzo mondo – ha negli ultimi anni peggiorato quasi irreversibilmente la situazione. Il pomodoro italiano è migliore di quello cinese in tutto, meno che nei prezzi. La carne piemontese o veneta ha certamente più sapore di quella irlandese, ma alla grande distribuzione questo interessa poco e acquista la ben più conveniente bistecca irish. Orate e branzini allevati in lagune come Orbetello o Marano hanno carni più pregiate di quelli greci, che poi però costano quasi la metà. E via andare.A conferma della diagnosi è paradossalmente il successo di certe produzioni di nicchia: la fragola autunnale, i frutti di bosco, il kiwi, l’asparago, la clementina, l’insalata imbustata. Prodotti che o non hanno concorrenza, o hanno trovato spazi nuovi per imporsi. La globalizzazione poi è “sfruttata” appieno da una grande distribuzione che ha spalle sufficienti per acquistare grosse partite di limoni spagnoli o sudafricani a prezzi inferiori a quelli meridionali; per schiacciare quindi i prezzi alla produzione. Anche qui si stanno salvando quei pochi che hanno trovato canali autonomi di vendita, come i mercatini a km zero – pregiata invenzione di Coldiretti – che tanto successo stanno avendo almeno al Nord. Ma è una ricetta che può evidentemente essere adottata da tutti.Che fare dunque? In Europa si sta ridiscutendo il sistema di aiuti all’agricoltura. Decisioni che potranno salvare o uccidere (vedi latte, zucchero e tabacco in Italia) interi settori produttivi. Si dovrà ancora una volta dare una mano ad una parte fondamentale del sistema-Italia, che a sua volta deve cominciare a darsi una mano senza indugiare ulteriormente. Inutile persistere in colture che non hanno né avranno più spazio nel mercato; occorre poi adottare il più possibile quel sistema di filiera che sostiene, ad esempio, certe produzioni padane: dal campo di fagioli o piselli alla scatola sullo scaffale dentro l’ambito della cooperazione. Infine capire che una mela qualsiasi la si può produrre in Polonia come da noi, e il mercato non premia questo indistinto. Una Melinda o una Marlene, invece, sanno trovare spazi sugli scaffali e nelle borse delle spese grazie a sistemi produttivi e di vendita che riescono a stare al passo con i tempi.

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