Adesso ci si rimbocchi le maniche

Sere fa, in quel di Crema, ho ascoltato un bel commento sulla «Battaglia di Legnano», melodramma verdiano molto meno conosciuto al confronto degli altri capolavori. E’ abbastanza nota la genesi di quest’opera, strettamente correlata agli eventi che precedettero ed accompagnarono la prima guerra d’indipendenza e sono certo che l’amico conferenziere mi perdonerà se, brevemente, riprendo la parte introduttiva del suo «speach», ritenendola interessante ben oltre i contenuti squisitamente musicali. Quando nel marzo del 1848 i moti milanesi ravvivarono più concretamente la grande speranza risorgimentale, i capi rivoluzionari, ritenendo imminente la costituzione di una nuova realtà politica, si trovarono al cospetto di tre problematiche alternative: Che tipo di Italia si voleva fare? Monarchica o repubblicana? Cattolica o laica? Unitaria o confederata? La risposta al primo quesito, pur tra qualche dissenso, fu razionale ed obbligata. Alimentare l’illusione che il potente presidio di Radetsky potesse essere battuto da un manipolo di «descamisados» armati di nobili pensieri, ma di pochi fucili, era pura follia. Ci voleva un esercito e l’unico, disponibile, era quello sabaudo. L’idea mazziniana, nata in seno alla Carboneria, si stava rivelando, nel suo impatto con la realtà, un magnifico, anacronistico sogno. Per rendersene conto appariva sufficiente dare un’occhiata in giro. La rivoluzione francese si offriva come un ricordo, lontano mezzo secolo e, dopo il fallimento del progetto napoleonico, Parigi aveva fatto in tempo a restaurare la monarchia e a disfarsene ancora una volta, costituendo un secondo, fragile tentativo repubblicano. Per il resto non esisteva un solo paese europeo da Ovest ad Est, Svizzera a parte, che non fosse guidato da un regnante o da un imperatore, mentre, per ciò che stava accadendo al di là dell’Atlantico... c’era di mezzo il mare. Sul secondo quesito, riguardante la laicità della futura nazione, si avviò un lungo, tormentato dibattito nei salotti e nei circoli culturali della capitale lombarda, facendo comunque emergere, al momento e sulla scorta delle pressanti contingenze, l’opzione papalina, solo apparentemente supportata dalle aperture progressiste e liberali di Pio IX. C’era invece, alla base di tale orientamento, una sensata, ben più importante, motivazione strategica. Andare in guerra contro gli austriaci con la minaccia di essere aggrediti sul fianco dai mercenari dello Stato Pontificio, quasi certamente affiancati dalle milizie napoletane, era, di certo, prospettiva preoccupante. Più rassicurante ed opportuna si presentava la consapevolezza di averli dalla propria parte, in una, pur frammentaria, coalizione. L’alleanza tra Torino e Roma, peraltro, fu di brevissima durata ed il voltafaccia di papa Mastai Ferretti, riaprì le porte di Milano alle truppe imperiali. Lo stesso capo della Chiesa Catt olica avrebbe, di lì a poco e di persona, sperimentato l’innovativo vento del nord, cedendo, sia pure per poco, all’effimero tentativo della Repubblica Romana. La restaurazione da lui imposta e la successiva opposizione, pur simbolica, all’ingresso dei bersaglieri a Porta Pia, costituirono fonte di accesi e cruenti scontri tra le fazioni, anche oltre la sua morte. L’ultima delle tre importanti questioni era quella che offriva maggiore spazio al confronto tra opposte tesi. All’ombra della Madonnina l’idea federalista aveva raccolto molti proseliti. L’esempio della vicina Svizzera si pensava potesse essere esportato al di qua delle Alpi, ma la prospettiva di mille campanili, da gestire in un progetto federale, dovette apparire a tanti altri difficilissima se non irrealizzabile. La storia dell’italica gente, stracolma di perenni diatribe, di scontri perfino tra borghi confinanti, d’innumerevoli guerricciole combattute con frequenza elevatissima, si tradusse in un’ ostacolo d’alta caratura avverso al progetto di Carlo Cattaneo. I tre quesiti di centosessant’anni fa sia pur attualizzati, sono ancora tra noi ed ancora fanno discutere. Sorvolo volentieri sulla frivola sfida tra simpatizzanti e denigratori del giovane rampollo «savoiardo», ballerino e cantante. Che gli italiani, di tanto in tanto e tiepidamente, riattizzino la polemica, forse un po’ consunta, tra laici e cattolici è ben risaputo. La disputa tra centralismo e federalismo ha, invece, raggiunto le generazioni contemporanee con rinnovata veemenza, virulenza e passione. Ben lungi da me qualsiasi pretesa di analisi storica o scelta di campo; esprimo però la convinzione che il futuro di questo Paese passi attraverso il non facile, ma possibile superamento di quest’ultimo dilemma. Abbandonare una volta e per tutte vecchie ruggini campaniliste e smetterla con le furbizie dei privilegi è la sola, saggia via percorribile. Si agiti pure il tricolore per il centocinquantesimo, s’intoni pure l’inno di Mameli, ma ci si rimbocchi le maniche: il tempo stringe.

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