«Accesso alle cure e lavoro: nessuno sia abbandonato»

Il vescovo di Lodi, prima Diocesi a sperimentare una Zona rossa lo scorso febbraio, riflette sulla sofferenza provocata dalla pandemia e apre alla speranza: “Insieme riprenderemo il cammino”

L’accesso alle cure garantito a tutti. L’attenzione al mondo del lavoro e alle possibili difficoltà che potranno emergere nel primo semestre del prossimo anno. La vicinanza agli anziani e ai malati. E un pensiero ai più giovani e alle loro famiglie, per le quali sono necessarie «politiche di sostegno straordinarie». Sono alcuni dei temi che il vescovo di Lodi tocca nell’ampia intervista concessa a «il Cittadino» in occasione della pubblicazione del volume “Insieme sulla Via... tra memoria e futuro in tempo di pandemia”, nel quale ripercorre i mesi più difficili della pandemia. Monsignor Maurizio Malvestiti è vescovo di Lodi dal 2014 ed è stato il primo vescovo, in Italia, a vedere una parte significativa della sua Diocesi finire nella prima Zona rossa del Paese, nel fine settimana del 22-23 febbraio scorsi.

Il libro si apre con la telefonata di Papa Francesco il 6 marzo, un gesto di vicinanza solidale nei giorni più duri per la terra lodigiana. Cosa ricorda di quel colloquio?

«Dalla Segreteria vaticana mi hanno detto: la sta cercando il Papa. Sembrava uno scherzo, invece era proprio lui. Come per gli incontri importanti, ho annotato l’orario: erano le 11.08. Quello che mi rimane nella mente e nel cuore, come se lo sentissi adesso, è il sentimento di pacatezza con il quale cercava di confortare. Sembrava di scorgere nel tono delle parole l’impossibilità a fare di più. Mi sovviene la figura di Pietro, negli Atti degli Apostoli, quando alla porta del tempio risponde alla richiesta di un uomo, storpio dalla nascita, e dice: non ho né oro, né argento, ma ti porto questa risorsa che è la fede cristiana. Una risorsa grazie alla quale, nella nostra fragilità, anche noi possiamo riprendere il cammino».

Abbiamo ancora negli occhi le immagini di Papa Francesco in preghiera, in una piazza San Pietro deserta, sotto la pioggia. Era il 27 marzo. Un momento entrato nella storia…

«Quando il Santo Padre ha imboccato solitario il pendio della piazza ho pensato alla Città Santa, dove un uomo, che per la nostra fede è Dio, si è fatto carico nel silenzio di tutte le ferite dell’umanità. Mi ha impressionato il Papa vicino al Crocifisso, e in quel contesto anche la pioggia faceva la sua parte, quasi a dire “non c’è più nulla da fare”. Poi però si è affacciato con il Santissimo Sacramento per la benedizione, ricordandoci che mai dobbiamo darci per vinti. Il Papa era solo. Quella immagine, trasmessa in tutto il mondo, ha assunto però un’immensa forza evocativa: questa sua solitudine ci ha uniti, non ha fatto sentire sola l’intera umanità».

Quanto sta accadendo ci fa comprendere che siamo davvero tutti “sulla stessa barca” e “nessuno si salva da solo”. Perché il mondo se ne era dimenticato?

«Probabilmente abbiamo pensato di avere tante risorse e ci siamo illusi di poterci rifugiare nel nostro individualismo e nella nostra autosufficienza. Siamo stati invece prepotentemente rimessi nella precarietà del vivere. La stessa insicurezza però non manca mai di prospettiva, ricordiamolo, se apre all’insieme che noi formiamo: possiamo uscire sempre da ogni difficoltà, nella misura in cui non ci chiudiamo e nessuno rimane indietro».

Il 20 giugno Francesco ha accolto in Vaticano i vescovi delle diocesi lombarde maggiormente colpite dalla pandemia, insieme a parroci, amministratori pubblici e medici. Nel suo discorso ha detto di aver “ammirato lo spirito apostolico di tanti sacerdoti, che andavano con il telefono, a bussare alle porte, a suonare alle case: “Ha bisogno di qualcosa? Io le faccio la spesa…”. Una immagine consolante…

«A questa immagine vorrei aggiungerne un’altra, pure commovente, quella del congedo ai sacerdoti e a tante persone care mancate durante la pandemia, con i familiari impossibilitati ad accompagnarli. I sacerdoti, a nome di tutti, nel momento estremo, ne hanno raccolto la speranza consegnandoli alla vita che non muore».

Nel pieno della pandemia medici e infermieri si sono spesi senza sosta. Alcuni hanno anche perso la vita. Hanno dimostrato amore e dedizione per il prossimo, come il buon samaritano…

«Quella del buon samaritano è una parabola evangelica ma anche “laica” di stupenda prospettiva. Non ha fatto alcun discorso, non ha indagato sulle responsabilità, è partito dalla realtà e ha cercato di fare il possibile. I simboli di questa parabola sono fortemente espressivi: l’olio della consolazione e il vino della speranza. Li versavano sui malati con testimonianza eroica i medici e gli infermieri. Ne ho sentiti alcuni per telefono nei mesi più duri: c’è chi ha persino chiesto l’unzione dei malati per sé temendo di rimanere contagiato prestando servizio. Altri medici, d’intesa con i cappellani degli ospedali, hanno tracciato il segno della croce su quanti si stavano spegnendo completamente soli. La fede ha rappresentato una risorsa per diversi operatori posti di fronte ad una sfida veramente impegnativa ma in tutti l’emergenza ha senz’altro risvegliato le più irrinunciabili domande di senso».

L’esperienza di malattia e sofferenza che abbiamo sperimentato con il Covid hanno improvvisamente fatto comprendere all’uomo come sia piccolo all’interno del mondo. Non siamo infallibili, non siamo invincibili…

«Abbiamo ricevuto una lezione di profonda sofferenza. Le perdite sono state sconcertanti. Non nascondo la preoccupazione avvertita nella pausa estiva quando sembrava che avessimo già dimenticato un passato così recente. In questa seconda fase pandemica mi pare si possa riconoscere un notevole recupero di coscienza e di equilibrio: temevo maggiore stanchezza dopo parecchi mesi difficili, l’adesione alle norme di salute pubblica è stata invece ammirevole, anche nei giovani».

In settimana, in un articolo di fondo sul «Cittadino», abbiamo parlato della morte, oggi spesso vista come un tabù e non come una fase della vita. Perché la nostra società fa così fatica a confrontarsi con essa? La pandemia ci ha aperto gli occhi?

«La pandemia ci ha ricordato una verità inesorabile: il nostro finire, se non è illuminato da una idealità - per noi cristiani dalla fede - rimane un angosciante punto di domanda. La società fa sempre più fatica a esprimere il cordoglio, tenta di cancellare la morte specie nei confronti delle nuove generazioni, mentre la vita è falsificata se non considera con le opportunità la sua radicale debolezza. Non è umiliante questo pensiero. È realismo indispensabile. Abbiamo ricevuto una lezione forte, in contrasto con una linea culturale di progresso senza freni, di possibilità illimitate, di totale autodeterminazione nel possesso delle cose e nelle relazioni. Senza essere indebitamente moralisti dobbiamo recuperare il valore del limite, della misura, per andare certamente al di là ma non da soli».

Il ricordo di quanto abbiamo sperimentato e di quanti ci hanno lasciato passa dai cimiteri. Lei ne ha visitati molti negli scorsi mesi, quando ancora erano chiusi, spesso pregando all’esterno, guardando all’interno attraverso le grate dei cancelli. Riusciremo a lenire questo dolore?

«Questo è un punto essenziale della ripresa: non possiamo cancellare quanto abbiamo sperimentato. Anche nei giorni più bui, attraverso i cancelli chiusi dei cimiteri, si poteva intravedere un “oltre”. Nella Visita pastorale avevo sostato in tutti i cimiteri; nei mesi scorsi ho cercato di raggiungerne diversi nella prima Zona rossa e in altri vicariati, per ribadire che abbiamo futuro solo se manteniamo viva la memoria, quella pasquale, soprattutto. L’ho ricordato anche al presidente della Repubblica il 2 giugno al cimitero di Codogno, evidenziando il commiato offerto dai soli sacerdoti alle innumerevoli vittime».

La società è apparsa smarrita di fronte a un evento inatteso e inspiegabile. Riuscirà a riprendersi?

«Confido di sì, se farà tesoro di questo colpo in dimensione globale. Dipenderà molto dalle componenti più sensibili, che credono all’interiorità e si battono in difesa di tutti percorrendo il solco di una dignità condivisa che riesca a custodire l’umano quale insuperabile regalo comune».

Come ha reagito la Chiesa Laudense?

«Mi pare positivamente. Fin dall’inizio. Penso alla determinazione dei sacerdoti e di tanti laici, penso a medici, infermieri ed educatori che anche in nome della propria appartenenza ecclesiale hanno cercato di fare tutto il possibile. Alle famiglie e ai giovani che hanno trattenuto la speranza. Al volontariato. Credo che la Chiesa e la società lodigiana abbiano camminato insieme, affrontando il disagio tanto grave di comune accordo per “rimanere in piedi”. Abbiamo dato al mondo un segnale non indifferente di perseveranza nella cura dell’umano. La fede ci ha sorretti… anche on line».

Rincuora pensare all’impegno profuso nel sociale, a partire dalla Caritas diocesana. La solidarietà verso i bisognosi e gli ultimi è uno dei segnali migliori per guardare al domani con fiducia…

«Certamente non sono mancate la buona volontà, la dedizione e la generosità in prima persona o attraverso il sostegno economico. Recentemente, incontrando la presidenza del Consiglio pastorale, ho sottolineato l’urgenza di interagire con la società civile per garantire la salute a tutti, sottolineando le inadempienze ma integrando le energie. L’accesso alle cure è fondamentale. Mai dimenticando la salute interiore compromessa in molti dalla pesante cesura relazionale. La riorganizzazione della presenza dei cappellani in tutti gli ospedali della Diocesi va in questa direzione».

Il lavoro resta un’emergenza per il Paese e il nostro territorio. Lo aveva ricordato lo scorso 19 febbraio incontrando sindaci e amministratori pubblici nei “Colloqui di San Bassiano”. Oggi è ancora più urgente spendersi in questa prospettiva…

«La Chiesa di Lodi vuole richiamare tutti a questa urgenza. Il Fondo di solidarietà per le famiglie che hanno perso il lavoro o attraversano una fase di difficoltà ha raccolto una generosità impensabile. Adesso va, purtroppo, messo a tema questo Natale così problematico sotto il profilo occupazionale. Nelle scorse settimane ho incontrato i lavoratori dell’Auchan di San Rocco al Porto e con l’Ufficio di pastorale sociale stiamo monitorando la situazione della Protec di Sant’Angelo Lodigiano. Nel primo semestre 2021 temo possano uscire altre situazioni delicate. La Diocesi si pone seriamente al fianco delle famiglie in due modi: con il poco che può elargire quale contributo concreto al sostentamento e richiamando ai vari livelli le responsabilità, coalizzando le risorse affinché la solidarietà non abbandoni nessuno a sé stesso».

La memoria passa anche dai nostri anziani, penso a quanti nelle case di riposo e negli ospedali sono privati dell’affetto dei propri familiari. Cosa può dire a loro un vescovo?

«Dall’esperienza della vita i nostri anziani hanno imparato a resistere e sono tuttora per noi un esempio straordinario in questa ottica. Ma certo dobbiamo fare tutto il possibile per proteggerli fisicamente senza abbandonarli ad un isolamento altrettanto deleterio: alcuni sono da sei, sette, otto mesi in attesa di contatti significativi con i propri cari. Io stesso, come vescovo, sento la pena di non potermi avvicinare ai sacerdoti anziani anche se ho cercato in ogni modo di tenerli collegati con la diocesi, specie con la preghiera ma anche telefonicamente».

Il lockdown ha privato i giovani delle relazioni, della vita comunitaria così importante alla loro età, della scuola in presenza. È preoccupato delle conseguenze nel lungo periodo?

«È un tasto fondamentale nella ripartenza. Non ci rendiamo conto di cosa significhi la perdita di un anno scolastico e la penalizzazione delle relazioni parrocchiali e sociali: l’altro viene percepito come pericolo da evitare. L’incremento delle relazioni familiari è positivo. Ma proprio le famiglie sono talora sfibrate dall’eccessiva condivisione di spazi e tempi».

La speranza arriva però dal sorriso dei nostri bambini. E comunque dalle famiglie, vero argine sociale nei mesi più bui: a queste oggi forse, ancor più di ieri, dovremmo garantire maggior attenzione e supporto…

«Le nuove generazioni e le rispettive famiglie sono il bene più prezioso ed esigono pertanto, senza ulteriore ritardo, politiche straordinarie di sostegno adeguatamente elaborate e realizzate. La denatalità sta colpendo in maniera insostenibile. Come Chiesa abbiamo cercato di continuare il più possibile l’iniziazione cristiana preparando i ragazzi ai sacramenti e coinvolgendo i genitori. Sono fermi gli oratori ma l’azione educativa deve continuare. In tempo d’emergenza, l’autentica coscienza educativa alleandosi con la creatività, la passione, la competenza anche virtuale, e la fede, possono fare la differenza».

Ha indirizzato questo volume a tutti i sindaci del territorio lodigiano, rivolgendo a loro un grazie e un augurio particolare. Quanto sono stati importanti nei mesi che abbiamo affrontato?

«Sono stati ammirevoli, assieme alle pubbliche autorità, ognuno nel proprio grado, penso al prefetto, al presidente della Provincia, al questore e a tutte le forze di sicurezza e di tutela del territorio. I sindaci hanno lavorato in sinergia con i parroci e questo racconta molto della specificità della nostra terra: nella distinzione dei ruoli resta vivo il senso di appartenenza, che si esplica nella cura del bene comune».

L’Avvento ci avvicina al Natale, che sarà ancora caratterizzato dalle limitazioni pandemiche ma che rappresenta comunque un momento di speranza per tutto il mondo. Quanto abbiamo bisogno di speranza in questi giorni?

«È decisiva la speranza, soprattutto per quanti si lasciano trascinare dagli eventi. Insieme alla vigilanza, termine biblico ricorrente in queste domeniche. La realtà va guardata in faccia nella sua precarietà, ma siamo sempre più grandi di ogni problema. Nella nascita di ogni bimbo, Dio impegna tutto sé stesso: lo dice il Natale di Gesù, che ci fa sperare addirittura contro ogni speranza se proferiamo il grazie che conclude il volume ed apre ad un nuovo promettente inizio».

© RIPRODUZIONE RISERVATA