A Milano, dove sopravvivono gli “invisibili”

C’è la Milano politicamente impegnata delle elezioni amministrative. Quella di Giuseppe Sala e Stefano Parisi che, usciti testa a testa dal primo turno, cercano ora di giocarsi le ultime carte per conquistare Palazzo Marino. E c’è la Milano di periferia. Quella lontana dalle luci sfavillanti di corso Vittorio Emanuele e anche dai brindisi nelle sezioni di partito. È la Milano dei campi rom che nessuno vuole vedere. Uno di questi si trova a nord ovest del capoluogo lombardo, a due passi dall’area che soltanto pochi mesi fa accoglieva i milioni di visitatori venuti per l’Expo. Lo si scorge all’improvviso, inoltrandosi nel quartiere di Quarto Oggiaro, mezzo nascosto dai palazzoni di una vecchia fabbrica dismessa. Qui, in mezzo ai rottami, all’immondizia e ai topi, vivono dodici famiglie con i loro bambini e i loro animali.Appena arrivati nell’accampamento, veniamo accolti da Mari, una bambina di 11 anni che vive qui insieme con i genitori e il fratello minore Alex. Come gran parte delle altre famiglie del campo rom, quella di Mari è originaria della Romania. Lei e suo fratello sono gli unici bambini del campo che vanno a scuola. Ne consegue che sono anche gli unici della famiglia a parlarci in un discreto italiano.“Tra pochi giorni prenderò la pagella di fine anno e non vedo l’ora, perché voglio scoprire che voto ho preso in italiano”, racconta entusiasta la bimba.Mari sta per finire la quinta elementare e, non appena terminata la scuola, tornerà in Romania per l’estate. “Lì – ci spiegano i genitori – potremo rinnovare i nostri documenti per poi tornare in Italia”. Intanto, con il rumore incessante delle automobili che sfrecciano sullo snodo autostradale, ci addentriamo nell’insediamento venendo salutati man mano dalle altre famiglie. Alcune donne stanno preparando il pranzo su dei fornelli malconci, mentre una ragazzina lava i panni in una bacinella mezza rotta. Qui dentro si conoscono tutti e in mezzo alle lamiere e alle tane dei topi ognuno cerca di trascorrere le giornate come può. Trovare un lavoro per un rom, infatti, non è un’impresa semplice. “Qui vivono tutti di elemosina”, spiega Fiorenzo De Molli, responsabile dell’accoglienza della Casa della carità, fondazione milanese che da anni lavora al fianco delle persone “invisibili”. “Purtroppo – continua – con alcune famiglie rom è difficile avviare un percorso di reinserimento sociale e lavorativo perché molti di loro, soprattutto gli anziani, sono analfabeti oppure non hanno mai lavorato”.La fondazione, nata nel 2002 per iniziativa dell’allora arcivescovo di Milano, il cardinale Carlo Maria Martini, aiuta in maniera gratuita le famiglie senza casa, i giovani migranti, gli anziani e le persone con problemi di salute mentale. Alcuni di loro sono ospitati nella struttura di via Brambilla, mentre a tutti gli altri viene offerta la possibilità di farsi una doccia o di cambiarsi i vestiti. In questi anni sono arrivati alla Casa della carità tantissimi siriani in fuga dalla guerra, ma anche molti romeni e soprattutto tanti italiani. In totale sono 97 le nazioni che hanno trovato ospitalità alla Casa, ma tra le attività tradizionali c’è soprattutto quella di seguire da vicino la situazione delle tante favelas urbane che si sviluppano negli angoli più nascosti di Milano.“L’invito che ci rivolgeva il cardinal Martini era di andare verso le periferie, non solo quelle geografiche, ma anche quelle esistenziali, per accogliere tutti coloro che vengono dimenticati dalla società”, racconta De Molli con parole che evocano i messaggi di Papa Francesco. Questa scelta di “stare nel mezzo” porta gli operatori della fondazione a essere sempre presenti nei diversi punti della città dove si sviluppa l’emergenza sociale. Anche quando questa emergenza è rappresentata non dall’apertura ma dalla chiusura di un campo rom.No alle logiche di conflitto o di abbandono. La fase successiva allo sgombero, quando entrano in azione le ruspe e le forze dell’ordine “liberano” i campi dalla presenza delle famiglie occupanti, è infatti per i volontari la più impegnativa. La procedura del Comune prevede in questi casi due soluzioni. La prima è costituita dai centri di emergenza sociale, detti Ces, che ospitano circa cento persone a cui è offerta un’ospitalità gratuita. A Milano ce ne sono due, e uno di questi, (quello di via Sacile) è gestito da circa tre anni proprio dalla Casa della carità insieme alla fondazione Somaschi. Alle famiglie, che si trovano qui, viene offerto un sostegno socioeducativo che possa consentire loro un inserimento stabile in Italia, nella speranza che il resto della popolazione sia propenso all’integrazione. La seconda strada, invece, è rappresentata dai centri di autonomia abitativa (Caa), in cui trova una sistemazione chi ha finito il suo percorso nel Ces ed è riuscito a trovare un’occupazione. Si tratta di un’accoglienza temporanea, in cui gli operatori sociali lavorano insieme con le famiglie per costruire insieme un percorso di responsabilità e, soprattutto, di autonomia. Per questo motivo, quando poche settimane fa è stato chiuso il campo rom di via Idro, la Casa della carità insieme con il Centro ambrosiano di solidarietà (Ceas) ha deciso di accogliere sette famiglie per un totale di oltre trenta persone. “Lo abbiamo fatto per non lasciar vincere logiche di conflitto o di abbandono”, spiega don Virginio Colmegna, presidente della fondazione e consigliere del Ceas. “Non basta mettere in atto un semplice assistenzialismo per restituire dignità alle persone. La nostra missione vuole essere un punto di partenza per avere uno sguardo sulla città, su questo mondo nel quale viviamo, per costruire in modo semplice una comunità solidale che sappia curare e prendersi cura dell’altro”.

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