A che serve, oggi, un carcere?

Chi ricorda il giorno, il mese, l’anno della fondazione di Auschwitz? Pochi. Chi, invece, ricorda, e grazie al Giorno della memoria celebra, la chiusura di Auschwitz, il 27 gennaio 1945, quando l’Armata Rossa abbatte i cancelli del più grande campo di sterminio d’Europa? Molti, anche se non abbastanza. Questo insegna l’«educazione europea» (è il titolo del più bel romanzo mai scritto sulla Resistenza, da Romain Gary): libertà, dignità, onore di essere uomo - o donna, che valgono oltre ogni smentita. Alla luce di questi valori, di un’istituzione totale si celebra non l’inizio, ma la fine. Così è per orfanotrofi, ospizi di mendicità, manicomi. Luoghi di reclusione istituiti nell’età moderna per «sorvegliare e punire», piegare o quanto meno rendere invisibili i corpi e inoffensive le menti di essere umani ai margini, irriducibili all’ordine sociale, devianti dalla norma costituita, cancellati dalla storia.

A una a una, lungo il Novecento, le istituzioni totali cadono. Se il campo di sterminio ne rappresenta la forma estrema, poco meno atroce è l’ospedale psichiatrico, la cui soppressione per legge, nel 1978, è un atto di civiltà.

Soltanto una, tra le istituzioni totali, resiste, di una resistenza dettata da principi ben diversi da quelli affermati dall’«educazione europea»: egoismo sociale, logica sicuritaria, discorso dell’odio. Un’istituzione dispendiosa e inefficace, disumana e - per il degrado in cui versa -indegna di un paese civile. Il carcere.

Dispendiosa e inefficace perché il tasso di recidiva, di reiterazione di reato, di chi sconta per intero la pena in penitenziario è altissimo: 69%, tre volte superiore rispetto al 22% di chi ha l’opportunità di accedere a misure alternative (affidamento in prova ai servizi sociali, semilibertà, detenzione domiciliare), che, di norma, consentono anche di inserirsi più agevolmente in ambito lavorativo (fonte: A Buon Diritto).

È il fallimento del carcere, in assoluto e in particolare quale luogo di rieducazione ai fini del reinserimento nella società. Nonostante direttori, agenti di polizia penitenziaria, psicologi, educatori, volontari illuminati e consapevoli. Nonostante corsi, concerti, laboratori, iniziative, attività meritevoli ed esemplari.

Non potrebbe essere altrimenti: in ragione del suo impianto, il carcere non educa alla responsabilità, ma all’ossequio: per sopravvivere (all’istituzione penitenziaria, alle guardie, ai compagni, a sé stessi) nelle acque insicure della detenzione si impara a “fare il morto”. O si annega. Il carcere non rappresenta un’occasione di crescita, ma di regressione alla minorità, all’infanzia: si dipende in tutto da altri, per soddisfare i bisogni più intimi. Ed è amaro constatare che uomini ben più che adulti si adattano alla reclusione al punto di essere incapaci di condurre la propria vita “fuori”, nella cosiddetta normalità.

Dispendiosa e inefficace perché una persona ristretta in carcere costa allo Stato quasi centoquaranta euro al giorno (138,70 – fonte: Antigone). Di questi, soltanto poco più di tre euro sono imputabili al vitto (tanto che, in base all’ordinamento penitenziario, «ai detenuti e agli internati è consentito l’acquisto, a spese proprie, di generi alimentari e di conforto», indispensabili per non patire la fame): e infatti, scontata la pena, il reo è chiamato a saldare il debito del proprio mantenimento nella misura di circa sessanta euro per ogni mese di detenzione.

Non un solo centesimo è ascrivibile al vestiario: se non fosse per le organizzazioni di volontariato, i detenuti poveri non indosserebbero neppure la biancheria intima. Quanto a corsi, concerti, eccetera, gli oneri sono sostenuti grazie a progetti specifici, per i quali si richiedono finanziamenti mirati a istituzioni e fondazioni; o, ancora, attraverso i proventi di manufatti e prodotti realizzati dalle persone detenute (piccola pasticceria, per esempio); oppure non ci sono, perché azzerati dal lavoro gratuito di volontari e volontarie. La somma è dunque quasi interamente riconducibile all’impianto della sicurezza: direttori, agenti di polizia penitenziaria, operatori sociali (pochi, anzi pochissimi).

Al contrario, una persona sottoposta a misure alternative costa meno di trenta euro al giorno, in servizi connessi con l’esecuzione penale esterna e attività di controllo da parte delle forze dell’ordine. È giusto, certo, pagare stipendi e straordinari al personale. Non è giusto, invece, sottoporlo a turni massacranti, in ragione soprattutto del sovraffollamento delle carceri.

Il carcere è infatti un’istituzione disumana e indegna di un paese civile anche a causa del sovraffollamento, al quale si stenta a porre rimedio: una situazione di degrado desolante, che è costata all’Italia già diverse condanne da parte della Corte europea per i diritti umani, nel rispetto dei valori dell’«educazione europea».

Un’istituzione totale, per sua natura, non rende migliori gli uomini che vi sono rinchiusi e prigionieri. Li peggiora, talvolta senza rimedio. Al bene non si educa attraverso il male.

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