198 morti. Fuggiti per sempre

«Perché mi schiante?» - Perché mi schianti? Non c’è lettore dell’Inferno che non ricordi Pier delle Vigne, violento contro sé, suicida straziato, protagonista del canto XIII. «Perché mi scerpi?» - Perché mi spezzi?Il turbamento di Dante personaggio, stretto al suo maestro Virgilio, la selva di alberi irti e nodosi, il silenzio irreale interrotto da lamenti strani. E ancora il ramo spezzato di «un gran pruno», che gocciola sangue e parole… Impossibile non tremare alla lettura, anche per chi, come me, ama con passione la Commedia e ne ha portato nella Casa circondariale non il dolore senza riscatto e senza fine dell’Inferno, ma la luce diurna del Purgatorio, metafora del carcere e della vita quale esilio dell’anima sulla terra.Piero, il protonotario che tenne «ambo le chiavi» del cuore di Federico II, imperatore delle due Sicilie, fino a perderne «lo sonno e i polsi» - il sonno e la vita. Vittima dell’invidia della corte, nel 1249 accusato ingiustamente di tradimento, accecato col ferro rovente, gettato in una cella della rocca di San Miniato al Tedesco. «La cella è uno spazio senza tempo, un guscio vuoto. Il tempo è privo di significato, e per questo disorienta. – scrive Vincenzo Ruggiero nel saggio Il delitto, la legge, la pena – Questo vuoto porta i detenuti all’autonegazione, che li spinge a rendersi invisibili».Piero, che per la disperazione si uccide, sfracellandosi il cranio contro i muri di pietra della cella, finendo la vita – lui, raffinato prosatore – in una misera pozza di sangue. «L’espressione estrema del tentativo di fuggire, scomparire, può essere l’automutilazione, e infine il suicidio. – scrive ancora Vincenzo Ruggiero - In questo caso, i detenuti scelgono di fuggire definitivamente da se stessi, dal loro corpo. Il tasso di suicidi in carcere è comunemente dalle sei alle sette volte superiore a quello che si riscontra nel mondo libero».Pier delle Vigne, simbolo dei morti in carcere, dei morti di carcere. 168 (di cui 59 suicidi) dall’inizio dell’anno, al 19 novembre (fonte: Ristretti Orizzonti). Tra gli ultimi, amarissimo il caso del detenuto di Livorno impiccatosi a due giorni dal fine pena. Uscire dal carcere – dopo l’inattività, la regressione, il nulla – non rappresenta la fine della sofferenza: dentro, dolore e disperazione; fuori, incertezza e paura.I suicidi sono i soli dannati che Dante privi per sempre di una parvenza di corpo: furono (mai passato remoto fu più assoluto) «uomini», ora (in un presente che vale per l’eternità) sono «sterpi». Violando e negando il proprio corpo, hanno oltraggiato Dio e sé stessi: nel giorno del giudizio, le loro carni non si ricongiungeranno alle anime prigioniere dei tronchi irti e nodosi, ma penderanno da questi, «ciascuno al prun de l’ombra sua molesta» - ciascun corpo all’albero ove è l’anima che gli fece danno.Muoiono impiccati, i detenuti, stringendosi intorno alla gola le cinture degli accappatoi nei minuscoli bagni delle celle. Muoiono soffocati dal gas dei fornelletti su cui riscaldano il cibo la sera, inalando forte, la testa chiusa in un sacchetto di plastica. Muoiono, tutti, a stento («ingoiando l’ultima voce, tirando calci al vento», vedono sfumare la luce - parole di Fabrizio De André), invisibili, dimenticati, in fuga per sempre dalla giustizia e dalla vita.«Ministero della Giustizia» è scritto sulla targa marmorea a lato dell’ingresso di ogni prigione. «Giustizia» è parola sacra: richiama il fondamento stesso del vivere civile. Essere consapevoli della negazione della giustizia, ovvero dell’ingiustizia dell’attuale sistema carcerario italiano, che ha prodotto in meno di un anno 59 suicidi (l’aspetto più dolorosamente tangibile di un sistema al collasso), è una priorità etica non differibile.«L’animo mio, per disdegnoso gusto, credendo col morir fuggir disdegno, ingiusto fece me contra me giusto»: la conclusione del discorso di Piero, che gocciola sangue e parole, è degna della sua fama di maestro di ars dictandi, di retorica medievale. - Il mio animo, per amara soddisfazione, credendo di sottrarsi con la morte alla vergogna e allo sdegno che mi straziavano, fu ingiusto proprio contro me stesso, che pure ero giusto -. Dante è tanto accorato per la pietà da non avere voce per chiedere altro (lo farà per lui Virgilio) allo sventurato protonotario imperiale, vittima disperata di una carcerazione - al di là di innocenza o colpevolezza - sempre inumana.Pier delle Vigne, divenuto da «giusto» «ingiusto» nella violenza contro sé, è l’archetipo, il precursore tragico dei 685 detenuti morti suicidi dal 2000 a oggi, fuggiti per sempre, senza ritorno, dal carcere e da sé stessi.

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