Forse è meglio così: diciamo addio alla possibile Olimpiade di Roma 2020 ma lo facciamo senza eccessivi rimpianti. A differenza di chi si è stracciato le vesti nei giorni scorsi, troviamo abbastanza naturale che in un momento così drammatico per l’economia e la vita dell’Italia e degli italiani, si sia preferito da parte del premier Monti “tirare la cinghia”, anziché imbarcarsi in un’avventura dalle molte incognite. In fondo il ragionamento del nostro primo ministro è abbastanza lineare: come facciamo, dice lui, a chiedere ogni giorno lacrime e sangue ai cittadini e poi lanciarci in un’avventura dai connotati e dalle cifre iperboliche come quella a Cinque cerchi? Poi è comprensibile il disappunto di Petrucci e di Pescante (che si è subito dimesso da vicepresidente del Comitato olimpico internazionale), l’amarezza del sindaco Alemanno, la delusione di tutti quei giovani o giovanissimi sportivi che si vedevano già protagonisti in prospettiva all’appuntamento olimpico di casa, tra 8 anni. Il gran rifiuto è arrivato come una batosta improvvisa, mentre invece forse si è trattato solo di buon senso, di un signore che sta reggendo le sorti di un Paese che non si è mai avvicinato tanto al baratro. Roma 2020 è stata rigettata, quindi, soprattutto per una ragione di credibilità, prima ancora che di costi. Firmare la lettera di garanzie per il Comitato olimpico internazionale avrebbe spinto infatti il governo a un impegno finanziario ad alto rischio, per il solito lievitare dei costi delle opere, puntualmente avvenuto anche per i recenti carrozzoni organizzati dal Belpaese, “Italia 90” in primis. Quest’apertura di credito verso l’ignoto avrebbe, secondo Monti, esposto l’Italia a nuovi rischi: i mercati finanziari l’avrebbero magari interpretata come un rilassamento della politica nei confronti dei conti pubblici che faticosamente si sta cercando di rimettere in sesto. E non potevamo neppure illuderci che la salvezza, parlando di risorse olimpiche, sarebbe potuta arrivare dai privati. Era la convinzione del sindaco di Roma, Gianni Alemanno: una pioggia di milioni garantiti dagli sponsor che avrebbero permesso in maniera limitata di attingere a fondi statali e comunali. Convinzioni che, però, si scontravano con le risorse, buone, ma non esagerate, che in altre edizioni olimpiche i privati avevano garantito all’organizzazione: speranze un po’ troppo flebili per poter vincere le resistenze contabili del governo Monti.
Crediamo che il parallelo che si possa fare, a livello minimalista, è proprio quello legato al buon padre di famiglia che non sa neppure se è in grado di trovare di che sbarcare il lunario da metà alla fine del mese: in condizioni simili diventa difficile che si possa imbarcare in progetti legati a grandi vacanze estive, o all’acquisto di un’auto o un nuovo pc per sé o di un motorino per il figlio maggiore. Stessa prospettiva ha oggi il premier Monti: sa di aver chiesto agli italiani sacrifici grandissimi e non se la sente di compromettere questa immagine di serietà e rigore per un’avventura dagli esiti estremamente incerti sotto il profilo economico.
Consoliamoci con una riflessione legata al calcolo delle probabilità: magari arrivava il sì del governo italiano, ma poi la candidatura avrebbe potuto soccombere nel crudele barrage di Buenos Aires il prossimo anno, quando in lizza ci saranno ancora Tokyo, Istanbul, Doha, Baku e Madrid. Proprio quest’ultima sembra la grande favorita per ospitare le Olimpiadi tra 8 anni: ma non ci avevano raccontato che la crisi economica della Spagna era ancora più profonda e feroce della nostra?
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