Chi non ricorda la “pioggerellina di marzo” di Angiolo Silvio Novaro - poeta ligure vissuto a cavallo del ‘900 - imparata sui banchi di scuola? Questa “pioggerellina”, in casa nostra ha un nome tutto suo: sbrunsina. Un termine ignoto ad altri dialetti e la cui origine rimane oscura. A meno di non lasciarci guidare dai versi successivi della poesiola: “che picchia argentina sui tegoli vecchi del tetto...”, e da voci affini dell’alta Lombardia. Nei dialetti bergamaschi troviamo infatti il verbo sbronzinà, ‘scampanellare’.

Il bronzo non sarà prezioso come l’argento, ma può essere prezioso come aiuto alla ricerca etimologica, facendoci associare il ticchettio squillante della sbrunsina sui tetti al tintinnare della campanella di bronzo appesa al collo delle mucche al pascolo.

La sbrunsina, pioggia fine ma persistente, non va però scambiata per la sbrufadina, una ‘spruzzata’ di pioggia di durata molto breve, né questa va confusa con le poche gocce che precedono o seguono la pioggia: in questo caso diciamo semplicemente guta, ‘sta gocciolando’.

Mentre diciamo piöv per ‘piovere’, non abbiamo nel nostro dialetto una parola specifica per pioggia: la chiamiamo genericamente aqua.

Parliamo invece di piuüda, ‘piovuta’ (ma anche di daquada) per un episodio piovoso di una certa intensità.

Per indicare una pioggia consistente abbiamo però anche altre espressioni: la ven bela (quando ancora non fa danni), la ven a pale (a palate), a slansi, ‘me Diu la manda.

Di queste, la più enigmatica per un orecchio italofono è a slansi, espressione largamente diffusa in Piemonte, Lombardia e aree limitrofe: slans sta per ‘slancio’, quindi piöv a slansi significa ‘piove a dirotto’. Da notare, della stessa radice, anche il veneto lenza per ‘acquazzone’.

Quando la pioggia assume carattere temporalesco, si accompagna a tuoni e fulmini. Se la parola saeta non richiede spiegazioni, per giustificare il termine tron ricordiamo l’antico italiano trono, oggi trasformato in ‘tuono’: nell’immaginario popolare è il fracasso prodotto dal diavolo “che’l taca lit cun la so dona”.

E quando nel cielo estivo della nostra penisola lampeggia? Nel Lodigiano sumelga, più o meno come nel resto della Lombardia. Questa strana parola viene fatta derivare da alcuni studiosi dal latino tardo submiculare (verbo tuttavia non attestato per iscritto), a sua volta derivato da micare, ‘brillare’.

Prima o poi però la pioggia calerà di intensità, per poi cessare del tutto. Bene, a Lodi e dintorni la pioggia non cala ma balca, come “balcano” il vento, la febbre, la tosse, la rabbia...

Il nostro balcà, termine diffuso in tutta la nostra regione e nel Canton Ticino, trova corrispondenza di significato nel veneto sbalare, e addirittura nel dialetto siciliano (abbacari) e in quello sardo (abbacai). C’è chi lo fa nascere dal latino placare, chi dal greco abakes, mentre altri lo collegano al provenzale aboucà.

Oltre alle dotte discussioni fra linguisti, che cosa ci lascia la pioggia? Le pucie, specchi di cielo regalati alla terra per la gioia dei bambini (e la disperazione delle mamme) di ieri e di oggi.

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