Quando la poesia è “grido” di passione

Siamo al decimo volume di questa collana dalla pulizia grafica impeccabile e per la maggior parte fatta da testi di poeti dal dettato limpido e d’immediata comunicazione e dicibilità. Non fa eccezione La passione interminabile di Giovanni Perich (Bologna, 1941), con un surplus di buona vena e di affabilità. Non appaiono qui in primo piano retromondi o metafisiche evidenze, neppure un ben orchestrato itinerario fatto di richiami storico-culturali, ma come scrive il prefatore Giuseppe Pederiali, «la poesia di Giovanni Perich è un album di dagherròtipi morti nella realtà che diventano foto vive al momento del clic, grazie ad una formula magica che mescola nostalgia, malinconia, rimpianti, amore, arrabbiature e rassegnazioni». L’amore per l’autobiografia dà bagliori di poesia nell’oscillazione fra precarietà e persistenza delle intenzioni dell’io poetico, che continuamente è altro e diffrange dall’io dell’autore e continuamente altro sono e divengono i luoghi della vita che pur si fissano in scrittura. Nell’Ostinazione autobiografica per esempio si legge: «Tanto, sono accaduti. / Fatti senza importanza / già allora per nessuno, / e figuriamoci oggi. Ma allora, / quale la spiegazione / per questa frenesia / di pseudo farli rivivere? / Per un’idea di eccezionalità / senza alcun fondamento, / l’equivoco che scambia / i fantasmi per cose? / O un risarcimento inesigibile, / il sogno, almeno, di trarre un vantaggio / dalle mutilazioni della vita? / Ma, forse, più che tutto è un grido».

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