Ho pruad a dumandag a un fiöl che al gneva a l’uratori se al seva che roba l’era un gabiöl. Hal ma ridid in facia, a glà dumandad ai so amis, ma ala fin, l’ha scurlid la testa e l’è andai a giügà al balon. Cla roba chi la ma fai vegn in ment da parlà un po’ di rob che drueva la gent in campagna una cinquantina d’ani fa (quindi, ier, praticament) par lasà in dla memoria cume l’era la vita di paisan di nosti papà o, par i püsè giun, di nosti nonu. Cumincem cul dì che es “suta padron” in casina vureva dì veg tanti debit e poca sustansa; in questa chi gh’era al dirito da sta in casina, da veg ul litor ad lat al dì, qualche sac ad melga e qualche quintal ad legna da resgà e met in dla sta. La legna la gneva purtada davanti ala cà dopu che un quaidün l’era andai a scalvà i piant a rampeghent cui spron par taià i ram püsè gros. L’era questa la legna verda che ghè speteva al por paisan. L’era quasi sempor legna ad salis (ag n’era tanti piant di nosti part) o de spin. Al salis, prima da es trai a toc al gneva fai pasà cul lanternin e i ram pusè drit e un po’ gros i diventevun i manog dal badil o dal furcon; qualche volta, invece, as drueva al sambuc par fa i manog. Invece, i ram drit ma püsè picinin i diventevun i legn da fasöi o da tumatis o marisan o pevron. Par fa al gabiöl, e ciuè, par rispundog a cal fiöl ad prima, un cestin fai cui visc, as drueva la “Gasìa” che ierun di broc ca creseva adrè al Brambiulon ( un fos arent ala casina di Muntigg) o i ram dal “Pensul” che, invece, al creseva adrè ai prà-mars. Pri masin che as drueva par fa la separasion tra un ort e l’altor as druevun i ram püsè sütil e picinin dal salis tegnüd insema da una viscia che i ha ligheva ben stret. E par la fursela che la tegneva sü la corda par slargà i pagn lavad? S’andeva in campagna a cercà i ram lung e drit d’una pianta da spin che l’era la püsè buna par cal mestè chi; la stesa pianta da spin l’as drueva par fa al tirasass che l’era un legnet fai cun dü manog ai quali as lighevun dü listei d’elastic tiradi via dala camera d’aria d’una bicicleta e saradi sü da l’altra part da un toc ad curam due as meteva al sas da tirà. Un altor giög che l’era fai dai fiöi d’un temp l’era al “Pitarlo”: as feva la punta da part a part a un legnin de spin che pö’ al gneva picad cun un baston in modo da fal sulevà pr’aria; quand al legnin l’era il volt seg deva una bacarlada par mandal püsè luntana pusibil: insuma l’era al “baseball” di puvrin. Al manog dal fer par taià l’erba as feva cui cudghet di trau o cun un bel ram ad salis e la maneta par tegnol in man as feva cul muron; invece al chignöl par tegn ferm al fer l’era fai cun l’ulm. Vuraresi sarà sü cla storia chi cun la “scua ad sanguanin”. Cla scua chi l’as drueva par scuà l’era dal padron e quela dla casina e al sanguanin l’era un macion rus che al creseva adrè ai fos e qualche volta una viscia ad sanguanin l’as drueva par intrisag la schena ai fiöi chi capivun gnent; i gamb di fiöi che i purtevun i calson cürt anca d’invern ierun spes e vulentera rigadi ad rus.
Erminio ad Fumbi
ESSERE “SOTTO PADRONE” IN CASCINA SIGNIFICAVA...
Ho provato a chiedere ad un ragazzo che frequenta l’oratorio se sapeva cos’era un “gabiöl”. Ha sorriso, ha provato a chiedere agli amici, ma, alla fine, ha scosso la testa e ha, giustamente, preferito cimentarsi in una partita a calcio. Ho preso spunto da questo piccolo aneddoto per cercare di descrivere alcuni attrezzi che il contadino di cinquant’anni fa usava (quindi neppure tanto tempo fa), per riportare alla nostra memoria come si svolgeva la vita di campagna dei nostri padri o, per i più giovani, dei nostri nonni. Cominciamo col dire che essere “sotto padrone” in cascina comportava molti oneri e pochi onori; tra questi ultimi c’era il diritto ad abitare in cascina, ad avere, a seconda di quanti in famiglia prestavano la loro opera nei campi o in stalla, una misura di latte giornaliero, qualche sacco di granoturco e qualche quintale di legna. Quest’ultima veniva portata davanti alla casa del contadino dopo che personale specializzato provvedeva, scalando le piante di cascina, utilizzando gli speroni (i spron), a potarle dei rami più grossi e sporgenti. Tutto questo fasciame di legna veniva distribuito tra le varie famiglie. Per la maggior parte si trattava di legna di salice, pianta molto comune dalle nostre parti insieme a quelle di spino. Il salice prima di diventare legna da ardere nella stufa veniva vivisezionato e i rami più diritti e di un certo spessore diventavano il manico del badile o della forca (al furcon); qualche volta invece del salice veniva buono anche il sambuco. I rami un po’ più sottili diventavano i bastoni su cui si arrampicava la pianta del fagiolo; quelli un poco più corti servivano per sostenere le piantine del peperone o delle melanzane. Per fare il “gabiöl” cioè, per rispondere al ragazzo dell’oratorio di Fombio, un cesto fatto con vimini, si usavano rami di “gazìa” che erano cespugli piuttosto folti che crescevano lungo il ramo del Brembiolo (comunemente chiamato Brembiulon) che scorre vicino alla cascina Monticchie o di “ pènzul” che, invece, proliferava lungo le nostre marcite (i famosi prà-mars). Per le fascine (i masin) che servivano per i confini dell’orto si usavano rami sottili e flessibili di salice stretti e fasciati con una striscia sempre di salice. E per la forcella (lunga asta di legno con una biforcazione nella parte superiore che serviva per tenere sollevata la corda su cui venivano stesi i panni lavati stesi al sole)? Si andava in campagna in cerca di piante di spino che si prestava molto bene alla bisogna; la stessa pianta di spino era molto utilizzata per il tirasassi che, formato da una piccola asta biforcuta ai cui lati venivano legati due striscioline di elastici da camera d’aria di bicicletta chiusi sull’altro lato con una “patta” cioè una pezzuola di cuoio, costituiva il mezzo necessario per i ragazzi che si aggiravano per le campagne; altro divertimento in voga in quegli anni era il gioco del “pitarlo” che consisteva nel fare le punte ad un pezzetto di legno di spino che poi veniva percosso con un bastone proprio su di una di queste punte in modo che si alzasse da terra di circa mezzo metro; quando il legnetto era sospeso nell’aria veniva di nuovo percosso col bastone e spedito il più lontano possibile: insomma era il “baseball” dei poveri. Il manico della falce che serviva per tagliare l’erba era costituito da una delle “perline” (codeghette) che si usavano per tenere collegate le travi dei tetti o da un robusto ramo di salice e la “maniglia” posta a metà del ramo era, invece, di gelso (al muron), mentre il piccolo cuneo (al chignöl) che era necessario per bloccare il ferro posto in basso e che serviva per tagliare l’erba era di legno di olmo. Vogliamo terminare questa piccola esposizione sull’utilizzo del legno e degli arbusti nella vita di un tempo parlando della scopa di “sanguanin” (la sanguanina era un arbusto molto resistente dai rametti di colore rosso scuro che vegetava lungo i nostri fossi). La “scua ad sanguanin” era una rudimentale scopa che tutte le famiglie possedevano e che serviva per scopare l’aia e i cortili ed era molto utilizzata anche per “ l’educazione dei figli” in quanto qualche ramo di “sanguanin” serviva per “lisciare” le gambe dei figli disobbedienti per riportarli all’ordine. Ricordiamo che allora i ragazzi portavano sempre i calzoni corti anche d’inverno.
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