El Niño distrugge, ma la crisi è fatta dall’uomo

Da mesi vaste regioni dell’Africa, in particolare Corno d’Africa, regione del Lago Ciad (nord-est della Nigeria, Camerun, Niger) e parte dell’Africa orientale e meridionale sono colpite da una crisi alimentare profonda ed estesa, provocata da guerra, instabilità e siccità. Una crisi che per inerzia intellettuale molti attribuiscono alla natura, e alla effettiva scarsità di precipitazioni, provocata dal fenomeno planetario noto come El Niño. Ma che in realtà è un chiaro esempio di crisi man made (“fatta dall’uomo”). Si tratta di una crisi paragonabile, per magnitudo, a quella del 2011, a causa della quale nel Corno d’Africa morirono oltre 250 mila persone, ma con un’estensione geografica maggiore, tanto da spingere alti funzionari dell’Onu a definirla come «la peggiore crisi umanitaria dal 1945 a oggi». I paesi più severamente colpiti sono Sud Sudan, Somalia, Nigeria e Yemen (unico paese non africano), dove circa 20 milioni persone soffrono la fame e dove, secondo l’Unicef, 1,4 milioni di bambini rischiano di morire per malnutrizione.La siccità, si diceva, fa la sua parte.Ma in tutti questi paesi persistono da anni conflitti localizzati, che distruggono raccolti e bestiame, limitano o impediscono l’accesso a mercati e aiuti, provocano l’aumento dei prezzi di cibo e acqua, rendono i paesi instabili, le istituzioni fragili o fallite, e comunque incapaci di garantire una minima tutela dei diritti fondamentali alla gran parte della popolazione.Caso emblematico è il Sud Sudan, devastato da tre anni di conflitto interno: qui il governo e le agenzie delle Nazioni Unite hanno dichiarato lo stato di emergenza per fame. Le stime dicono che 100 mila persone rischiano di morire nello stato di Unity e che, senza un intervento deciso, il fenomeno si allargherà, portando a luglio 2017 circa la metà della popolazione sudsudanese (circa 5,5 milioni di individui) a non avere accesso al cibo. Tra i fattori causali, c’è indubbiamente la scarsità di piogge, ma anche e soprattutto il conflitto, con la sua carica di violenza verso i civili, la distruzione di semine e raccolti, l’annullamento di tutte le attività che già a stento permettevano la sopravvivenza della popolazione, provocando 1,3 milioni di rifugiati e quasi 2 milioni di sfollati interni. Il contesto di insicurezza ha inciso su un’economia già instabile, se non inesistente, portando al crollo della moneta locale e a un forte incremento dei prezzi, che rende l’acquisto di beni di prima necessità pressoché impossibile.Situazione simile nel bacino del Lago Ciad e in Somalia, dove l’instabilità provocata da conflitti interni e gruppi terroristici (rispettivamente Boko Haram e al Shabab) ha amplificato fragilità e vulnerabilità nei confronti degli shock ambientali, per loro natura assai intensi.In effetti, la siccità già più volte denunciata negli ultimi mesi non accenna a migliorare. Alcuni studi dimostrano come la caduta delle piogge nel Corno d’Africa, tra ottobre e dicembre 2016, sia stata inferiore di circa il 30% rispetto alle medie stagionali. In aggiunta, il ritardo della stagione delle piogge, abitualmente da metà marzo a maggio, è un ulteriore fattore di deterioramento di coltivazioni e bestiame dalla Somalia all’Etiopia, per proseguire con Kenya, Sud Sudan, Tanzania, Uganda e Burundi, ma anche Malawi, Zimbabwe e Madagascar.E così in Somalia, tra gennaio e febbraio 2017, le persone bisognose di assistenza alimentare sono aumentate di oltre un milione, raggiungendo la cifra di 6,2 milioni, localizzate principalmente nelle regioni del centro-sud: Baidoa, Bay e Gedo.Oltre alla malnutrizione, la scarsità d’acqua comporta il peggioramento delle condizioni igienico-sanitarie, sino a favorire la veloce diffusione di malattie come il colera. Intanto i prezzi dei viveri aumentano vertiginosamente, la morte degli animali è all’ordine del giorno, le comunità sono costrette a vendere i loro beni, a fare debiti per sopravvivere, a spostarsi aumentando il numero di sfollati interni (già circa 1,1 milioni) o di rifugiati nei paesi confinanti, in particolare nel campo di Daadab (Kenya) o in Etiopia.In Etiopia gli effetti di El Niño hanno condotto il paese a vivere, dal 2015, una delle più acute siccità da decenni; si stima che nel 2017 circa 5,6 milioni di persone avranno necessità di ricevere assistenza umanitaria. La diffusa carenza di pioggia, abbinata a temperature molto alte, porta a difficoltà di irrigazione dei campi e di approvvigionamento di acqua per uomini e animali, con la ulteriore conseguenza della diffusione di epidemie. A ciò si aggiunge un forte aumento dei prezzi di sementi e fertilizzanti: da circa due anni i contadini faticano ad approvvigionarsi e i raccolti si rivelano quasi inesistenti.Ma non sono solo i problemi climatici e ambientali a mettere in crisi l’Etiopia; oltre alla siccità perdurante, un impatto drammatico lo manifesta l’esodo di coloro che scappano dalla guerra in Sud Sudan. Secondo le stime dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr), l’Etiopia è il paese africano che si prepara ad accogliere il più alto numero di profughi, in aggiunta agli oltre 670 mila già presenti (inclusi anche eritrei e somali). La parte sud del paese è la più interessata, ma si teme un ampliamento dell’area di crisi.In Kenya, anche grazie alla spinta della Conferenza episcopale locale (attiva nel creare una rete di distribuzione di cibo nelle aree più colpite), il governo ha dichiarato lo stato di emergenza, che riguarda circa 2,7 milioni di persone. Secondo un’indagine condotta da più soggetti umanitari e sociali, le contee colpite dalla siccità sono 23. Scarso e incerto l’accesso all’acqua sia per l’uomo che per gli animali; le conseguenze sono un’elevata perdita di capi di bestiame e difficoltà nelle attività agricole.Anche in Kenya il fattore ambientale si associa a un fattore umano non indifferente. Le cronache riportano di continue e crescenti tensioni nelle zone colpite dalla siccità: invasioni di terre private, alla ricerca di acqua, e scontri tra comunità seminomadi e residenziali. Il clima preelettorale e la presenza di diversi gruppi tribali non fanno che accrescere il clima di instabilità.Dunque, ancora una volta, è evidente come la scarsità di piogge non rappresenti un fattore di crisi in sé, ma lo divenga in modo tanto più catastrofico quanto maggiore è la vulnerabilità della popolazione, che non è nelle condizioni di mettere in campo strategie di adattamento adeguate. Non è solo una questione tecnica, ma anche di distribuzione delle risorse, di rappresentanza e di incidenza, nei processi di decisione politica, degli interessi di piccoli agricoltori e delle comunità pastorali.In sintesi, in molti dei paesi colpiti dalla crisi il cibo c’è, ma non è accessibile a tutti a causa di conflitti, disuguaglianze economiche e politiche che spesso avvantaggiano gruppi e interessi particolari, inclusi aziende multinazionali e sistemi di agricoltura intensiva, che provocano fenomeni di accaparramento di terre e acque. Tutti questi elementi hanno reso sempre più vulnerabili ampi settori di popolazione rurale, la quale produce l’80% del cibo, nei paesi colpiti dalla carestia.La fame di pane si sazia, in definitiva, anzitutto con la pace e la giustizia.

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