In 200 milioni in fuga dalle desertificazioni

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr) concordano nello stimare che, entro il 2050, saranno più di 200 milioni le persone costrette ad abbandonare il proprio luogo di origine, a causa di disastri o rischi ambientali. Nonostante che la classificazione di “rifugiato ambientale” sia utilizzata dall’Oim dalla fine degli anni Settanta e che il Parlamento europeo abbia, dal 2011, proposto la definizione “sfollati o migranti per ragioni ambientali”, a livello internazionale non esiste ancora una definizione univoca; né di conseguenza, un riconoscimento giuridico che equipari un rifugiato ambientale, quanto a diritti, a chi fugge da guerre o persecuzioni. Chi abbandona la propria residenza, temporaneamente o permanentemente a causa di terremoti, inondazioni, alluvioni, desertificazioni, land grabbing, accaparramento di acqua potabile (per citare le cause più frequenti), ha dunque il pieno diritto di essere considerato profugo.Anche l’enciclica Laudato Si’, pubblicata due anni fa da papa Francesco, evidenzia il nesso fra cambiamenti climatici e migrazioni, sottolineando che oggi chi fugge per cause ambientali non ha diritto ad alcuna tutela giuridica e a una protezione umanitaria. Eppure le migrazioni, ormai, non sono un fenomeno limitato ad alcune aree del pianeta; interessano, direttamente, tutti i continenti. È necessario quindi rendersi conto che il fenomeno, già da molto tempo, rappresenta una drammatica questione mondiale. Mettere al centro la persona e i suoi bisogni, in questo contesto, vuol dire anche battersi contro categorizzazioni che generano diseguaglianza: purtroppo oggi chi abbandona la propria terra per cause ambientali o economiche rischia di diventare un “rifugiato invisibile”.

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