Abbiamo smesso con la manualità?

E se fosse anche per «presenza di cosmopolitismo», non solo per assenza di lavoro che i giovani italiani varcano la frontiera e cercano di mettere radici all’estero? Nel dibattito dei giorni passati sulle parole del ministro Giuliano Poletti, che hanno aggiunto un capitolo alla decennale questione degli italiani mammoni per colpa o per necessità, forse è stato sottovalutato l’aspetto che mette il tema sotto una luce che non germina (solo) dalla disperazione. O meglio dal «lavoro a bassa intensità», perchè in Italia - fortunatamente - di disperazione plateale se ne vede ancora poca. In ogni caso perchè non vederla così: i nostri giovani che espatriano... quanto si accorgono veramente di espatriare? Perchè è un dato di fatto, in qualche modo ad onore del nostro

sistema scolastico, che oggi nel Belpaese la più parte delle generazioni è in grado di parlare un inglese, e forse pure qualcosa di più, in un modo discretamente comprensibile e apprezzabile oltre i patri confini. E’ incontestabile che la più parte degli italiani attivi - anche qui specialmente giovani, ma ormai anche i relativamente tali - ha avuto occasione specialmente nell’età formativa di effettuare un viaggio all’estero per conto proprio, in un gruppo ristretto o autorganizzato. Senza doversi muovere per forza «intruppati» stile gregge, con guida rigorosamente traduttrice, come parte dei loro padri, madri e nonni videro il mondo. Un mondo tradotto in italiano a suon di viaggi e pellegrinaggi con guida apripista.

Quale ragazzo o ragazza italiana non ha oggi almeno un amico che conti radici e ascendenze fuori dallo Stivale?

Cinquanta anni fa avevamo tutto il lavoro che volevamo e sicuramente meno «disperati» in giro ad aggirarsi fra colloqui, test e graduatorie. Magari a caccia di un voucher. Ma alzi la mano chi capiva un’acca, anche un solo verbo, dei testi delle canzoni dei Beatles. Vabbè che non c’era internet e trovare un libro di musica era un’ impresa, ma quanti reduci dell’epoca «bitt» della nostra musica confessano oggi, col sorriso dei capelli bianchi, di essere andati avanti in quegli anni a suon di «uèscion» e «nesciòn» ? Bofonchiando sonorità vagamente anglofone che tanto nessuno contestava, in quanto nessuno le avrebbe capite.

Senza indulgere in ulteriori esempi si può riassumere l’idea col concetto che occupazione oggi in Italia certo ce n’è poca, ma apertura mentale tanta e qui o là, Italia o Norvegia, forse è un problema così gigantesco solo per gli over 50. Per chi ha meno primavere la Norvegia è solo un altro luogo dove essere italiani, norvegesi e chissà che altro assieme.

La diatriba sui nuovi bamboccioni (nuovi, perchè i giovani tra l’altro non sono mai gli stessi) mi ha spinto anche ad una seconda riflessione. In questa vicenda di chi va via non si sa perchè - se per colpa, per pigrizia o per inerzia - riemerge l’antichissima questione italica della nostra cultura eccessivamente intellettualizzante e tuttora prevenuta verso il lavoro manuale. Gli Statuti Civici della città di Novara, a metà del XVI secolo, stabilivano che avesse diritto a sedere nel Consiglio Maggiore cittadino, il consiglio decurionale, esclusivamente chi fosse: nobile da cento anni, residente in Novara da quaranta, e non avesse esercitato arte «vile o vero mechanica» da almeno tre generazioni. Tradotto: sempre i soliti che possedevano i mulini ma non giravano la mola.

L’esempio è esagerato ma serve a dire che persiste, nel nostro dna profondo, un atteggiamento che coltiva in modo irrealistico l’illusione di un Paese dove tutti possano vivere o di nobiltà, o di nobilitazione, o d’arte o di pensier. Col risultato che laddove tutti vogliono una cosa, moltissimi dovranno accontentarsi di altre: commercio, artigianato, manifattura, logistica.

E’ il paradosso e l’affascinante del sistema Italia: un museo diffuso che è anche la seconda manifattura d’Europa. Ecco: può darsi che molti giovani siano stati illusi da questa coscienza incantatrice che ci accompagna nei secoli. Perchè l’arte e il pensiero, purtroppo, sono sempre per i soliti.

O almeno non per tutti. Ma non è colpa dei nostri ragazzi.

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