Il futuro dell’Afghanistan torna nelle mani dei talebani

L’editoriale del direttore del «Cittadino» Lorenzo Rinaldi

A Kabul opera un’organizzazione umanitaria in cui le donne insegnano a guidare ad altre donne, affinché possano accompagnare bambine e ragazze nelle scuole, superando così il problema del trasporto su mezzi in cui vi è promiscuità con gli uomini. Può apparire un servizio minore in uno dei paesi più poveri del mondo, tuttavia è fondamentale perché gli studi accademici e l’esperienza sul campo dicono che sviluppo economico, emancipazione femminile e tasso di scolarizzazione sono fattori strettamente collegati fra loro e sono in grado di alimentarsi l’un l’altro. “Per ora andiamo avanti, non sappiamo però se lo potremo fare anche nei prossimi mesi...” raccontava pochi giorni fa a una radio italiana una delle responsabili del progetto. Lo scenario infatti sta cambiando rapidamente e libertà che apparivano ormai conquistate sono di nuovo messe in discussione.

Gli accordi di Doha del 2020 hanno sancito l’abbandono dell’Afghanistan da parte delle forze militari alleate: ci erano arrivate dopo l’attacco alle Torri Gemelle del 2001 e avevano sconfitto i talebani sul proprio campo. Se è vero che la democrazia non si afferma con le bombe, è altrettanto innegabile che negli ultimi vent’anni la soglia delle libertà e dei diritti in Afghanistan si sia alzata, soprattutto nei centri urbani, mentre le aree rurali sono sempre rimaste - di fatto - sotto il giogo dell’integralismo islamico.

Libertà, ad esempio, significa che le donne riescono a uscire di casa da sole e che le ragazze possono andare a scuola (e infatti i talebani le fanno esplodere con la dinamite). E se facciamo emergere una parte della popolazione dall’ignoranza sarà più difficile mantenere il potere attraverso un misto di terrore e fanatismo, cioè con gli “strumenti” dei talebani.

L’abbandono delle truppe alleate non è novità degli ultimi giorni. Lo aveva già annunciato Trump, il percorso ha subito poi una accelerata con l’amministrazione Biden (l’obiettivo della Casa bianca è che l’ultimo soldato lasci Kabul entro l’11 settembre 2021) e anche l’Italia ha ritirato il proprio contingente. Preoccupano però gli effetti di questa operazione. Da un lato il governo afghano è debolissimo e non ha una polizia e un esercito regolare in grado di opporsi con efficacia ai talebani, dall’altro questi ultimi hanno già annunciato che sono intenzionati a riprendere il potere e a ridurre parte delle libertà (ai loro occhi pericolose) che l’Occidente aveva garantito. I primi effetti del ritiro di americani e alleati sono drammatici: «Porzioni del territorio sono cadute in mano ai talebani - scrive il quotidiano inglese Guardian - e migliaia di soldati (dell’esercito afghano, ndr) sono fuggiti dal Paese o si sono arresi ai militanti, consegnando loro equipaggiamento e armi. C’è stato un vero e proprio collasso e gli Stati Uniti temono che Kabul possa cadere in pochi mesi (...). Nell’intero spettro politico nessuno aveva previsto la portata o la velocità del crollo delle forze afghane nelle ultime settimane».

Non sappiamo cosa potrà accadere in autunno, ma i segnali sono preoccupanti perché il rischio attuale è che in una manciata di giorni si torni indietro di vent’anni. E a quel punto i primi a pagarne le conseguenze sarebbero coloro che in questi anni hanno collaborato con gli occidentali (in gioco c’è la loro vita) e i soggetti più deboli, cioè le donne e i bambini, e tra questi in primo luogo le bambine.

L’Afghanistan del “dopo 11 settembre” non ha le caratteristiche di una democrazia occidentale (la democrazia non si esporta, la si coltiva) ma è certamente un paese più libero rispetto a quello governato dai talebani. Per questo l’Occidente - da un anno e mezzo concentrato quasi unicamente sulla lotta al Covid - ha l’obbligo morale di non voltarsi dall’altra parte. Il rischio concreto è che la piccola fiammella dei diritti, fragile ed esposta ai venti, venga spenta con soffio.

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