IL COMMENTO Il dilemma del Quirinale, tra Draghi e Berlusconi

L’editoriale di Luciana Grosso

I nomi per il prossimo inquilino del Quirinale si rincorrono, così come le ipotesi, gli schieramenti di partito, i pontieri che girano per le Camere con il pallottoliere.

La verità, per ora, è che davvero non si sa.

E il fatto che non si sappia, vorremmo rassicurare i lettori, non è un’anomalia di questi tempi complessi, ma una conferma del fatto che stiamo tornando, tutti, parlamentari inclusi, alla normalità.

La tradizione delle elezioni del Presidente della Repubblica vuole che, per lo più, si giochi a carte coperte, anzi copertissime, e che il vero nome sul tavolo arrivi a urne aperte, magari fra la terza e la quarta votazione. È successo così nel 2013, quando (anche se con gli esiti disastrosi che sappiamo) Pierluigi Bersani gettò nello stagno il nome di Franco Marini, prima di sfoderare la carta Romano Prodi.

Nel 2015, quando è stato eletto Sergio Mattarella, il Pd di Matteo Renzi e Lorenzo Guerini (architetto dell’operazione) sfoderò il nome di Mattarella solo a partire dalla quarta votazione, ossia solo dopo che il quorum si era abbassato.

Nel 2006, ai tempi della prima elezione di Giorgio Napolitano, i nomi sul piatto erano quelli di Massimo D’Alema, Giuliano Amato, Mario Monti e Lamberto Dini. Poi, come da prassi a essere eletto è stato Giorgio Napolitano.

E così via andando all’indietro.

Quasi sempre il nome vero, quello per cui stanno trattando i capi di partito e (non di rado) quelli di corrente, arriva dopo, a urne aperte, quando i bluff sono stati visti e le chiacchiere stanno a zero.

Così, invece di commentare i nomi che circolano, attività che ci lascia la fastidiosa sensazione che qualcuno ci stia menando per il naso, vorremmo provare a fare un po’ di conti.

Il Presidente della Repubblica, a meno di assenze che potrebbero far scendere il quorum, viene eletto da 1007 elettori, il che significa deputati, senatori e grandi elettori (ossia 58 delegati delle regioni, equamente distribuiti tra maggioranza e opposizione).

Sulla base di questo numero, 1007, si procederà. E, o ci sarà un nome che riesce a mettere d’accordo tutti, fin da subito, e raggiungere la maggioranza di due terzi, o si procederà fino al quarto voto, cioè quello dopo il quale i voti necessari sono molti meno: basterà la maggioranza semplice di 504.

A questo punto i giochi, verosimilmente, si faranno seri. I nomi saranno reali. E anche i voti saranno pesanti.

Berlusconi, a meno di imboscate da parte dei suoi, può contare su 450 voti, il che significa che ne mancano 54, un pugno, per arrivare al Quirinale. Voti che per ora non ci sono, ma che potrebbero sbucar fuori, da qualche parte. Con un parlamento così sfilacciato, nel quale sono saltati tutti i legami e gli accordi, nel quale non si contano i naufraghi in cerca di ricandidatura, nel quale il Movimento 5 Stelle che occupa il 30% dei seggi non ha né un leader né una direzione, tutto può succedere.

Draghi, in teoria, sarebbe quello con la maggioranza più ampia, dal momento che sarebbe sufficiente che chi lo sostiene come Presidente del Consiglio, lo sostenesse anche come Presidente della Repubblica. Ma questo non succederà. Sia perché Berlusconi ha messo il veto, togliendo all’ipotesi Draghi i voti di Lega e Forza Italia, sia perché in molti temono che, se cadesse il governo Draghi, si andrebbe a elezioni, con il risultato di lasciare a metà strada il piano per la spesa dei fondi europei.

Quindi a quel punto, constatato che i due terzi dei voti sono un traguardo impossibile, occorrerà capire chi, oltre a Draghi, possa riuscire a mettere d’accordo, almeno una fetta di questo parlamento litigioso e sparpagliato. Con la speranza che, poi, il Presidente, riesca a mettere d’accordo l’intero Paese, che è più litigioso e sparpagliato del parlamento.

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