La vita, l’amore, il cinema d’autore: Woody Allen e “le grandi domande”

“Rifkin’s Festival” è un racconto intimo e crepuscolare avvolto in una commedia

«I film sono sogni di celluloide». E non si può vivere senza sognare. Woody Allen è vivo e vegeto e (per fortuna) “lotta insieme a noi”: sopravvissuto alla messa al bando artistica (vergognosa) operata nei suoi confronti, il regista newyorkese arriva in sala con “Rifkin’s Festival” e – a dispetto degli 85 anni compiuti – dimostra ancora tanta vitalità e uno sguardo aperto al futuro.

Non esistono (o quasi) film “di passaggio” di Woody Allen. Complete battute d’arresto fatte su commissione per racimolare i soldi per gli avvocati e non restare con le mani in mano. Nella sua filmografia sterminata ci sono momenti più o meno “alti”, ovviamente, linee narrative e temi che ritornano, c’è un Woody Allen che si mostra più o meno “leggero”, ma per fortuna non c’è un Woody Allen di maniera, posticcio, non necessario. E anzi, da qualche anno a questa parte, c’è un regista che sembra aver ritrovato una vena creativa inattesa.

Questo “Rifkin’s Festival” lo conferma: girato a San Sebastian fa parte dei film europei dell’autore americano, quindi quelli girati lontano dalla musa New York, e racconta di uno scrittore che in Spagna arriva per accompagnare la moglie, in viaggio di lavoro come ufficio stampa al festival del cinema, dove accompagna un giovane e terribilmente sopravvalutato regista. Il protagonista Tom Rifkin è uno scrittore perennemente in attesa di partorire il romanzo della vita (ma il metro di paragone da superare è Dostoevskij, figuriamoci…), ha una moglie più giovane e bella che filtra con il regista ombroso, ha una passione per il cinema dei grandi classici e la notte gli appaiono in sogno Fellini, i film di Bergman, “Jules e Jim”, Lelouche e l’intera Nouvelle Vague che lo interrogano e non fanno altro che aumentare la distanza siderale tra lui e il resto del mondo che lo circonda.

Rifkin è profondamente Allen, che - con coraggio - ha messo tantissima parte di sé in questo personaggio fuori dal tempo, un professore di cinema legato ai classici («il cinema è arte. Il vero cinema è quello dei grandi autori europei»), che cerca di scrivere il suo capolavoro e si pone «le grandi domande che un intellettuale dovrebbe porsi». E – soprattutto – che «non ha ancora trovato se stesso».

Brillante, caustico e divertente come nei momenti migliori, profondo e intimo anche in maniera insospettabile – a dispetto del tono che resta sempre “leggero” – “Rifkin’s festival” sfrutta il volto e la fisicità impacciata del protagonista Wallace Shawn per creare un perfetto alter ego del regista e la tecnica di Vittorio Storaro che restituisce una luce unica a questo racconto crepuscolare in cui si declina, è vero, l’antologia “alleniana”, ma in cui le sorprese non mancano. Il dialogo con lo spettatore è continuo, le citazioni cinefile imperdibili, la passione che ancora sa trasmettere il regista è rara. E la banalità è bandita, soprattutto quando si permette cose che a nessun altro riuscirebbero, come il dialogo con la Morte del “Settimo sigillo” che ha il volto di Christoph Waltz e in serbo i consigli per abbassare il colesterolo e le risposte a quelle “grandi domande” che il regista nei suoi film si ostina a fare: «Scrivi, fai film, ti innamori, ci provi e alla fine anche se non fai gol sono cose che ti possono aiutare» è la sentenza.

Rifkin’s Festival

Regia Woody Allen

Con Wallace Shawn, Gina Gherson, Louis Garrel

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