«Voglio giustizia per la morte di Federico»

La mamma del bimbo ucciso: «Poteva essere salvato»

«Almeno tre persone sono responsabili della morte di mio figlio. Ora devono pagare, non mi darò pace finché sono in vita, non voglio che si avvicinino di nuovo ad altri bambini. Ad oggi, invece, sono ancora tutti al loro posto, esattamente con le stesse funzioni di allora». Sono passati due anni dalla morte del piccolo Federico Barakat, di San Donato Milanese, nove anni ancora da compiere, ucciso il 25 febbraio del 2009 dalla follia omicida del padre Mohamed che, durante un incontro “protetto” nel centro socio sanitario di via Sergnano gestito dal comune di San Donato, gli ha sparato un colpo di pistola alla testa e poi lo ha finito con venti coltellate. Il tutto senza che nessuna delle persone che avrebbero dovuto garantire la sicurezza di quell’incontro, per diversi minuti, intervenisse per fermare la furia dell’uomo. E dopo due anni da quello che l’avvocato Federico Sinicato definisce «il più orribile omicidio di bambino che la storia giudiziaria milanese ricordi da trent’anni a questa parte», la mamma del piccolo, Antonella Penati, sta ancora aspettando giustizia. Le indagini infatti sono ferme e ancora nessuno è stato iscritto nel registro degli indagati dalla procura di Milano. Al punto che il legale della donna ha chiesto alla procura generale “l’avocazione” del procedimento per arrivare finalmente o all’incriminazione dei responsabili per “omicidio colposo” e al processo oppure all’archiviazione. «È stata una tragedia annunciata - spiega la donna, che accetta di parlare nello studio del suo avvocato -, da mesi segnalavo ai carabinieri e ai servizi sociali la pericolosità del mio ex compagno. Lui era aggressivo, minaccioso, sia con me che con il bambino, ma più io chiedevo aiuto più veniva abbassato il livello di guardia. Gli assistenti sociali sono anche arrivati a dirmi di pensare a fare la mamma e di non essere esagerata, mi hanno detto “signora, cosa vuole che gli succeda? ci siamo noi, se continua così le toglieremo il figlio”. Invece ora me lo hanno tolto per sempre, e nessuno ha pagato».

CHE FREQUENZA AVEVANO GLI INCONTRI “PROTETTI” FRA SUO FIGLIO E IL PADRE?

«Si incontravano dal 2006, su disposizione del tribunale dei minorenni, all’inizio ogni due settimane e poi una volta a settimana, il lunedì o il mercoledì, per due ore nel pomeriggio. Con loro doveva esserci sempre un educatore uomo».

E FEDERICO COME AFFRONTAVA QUESTI INCONTRI?

«Aveva paura, non ci voleva andare. Diceva “mi guarda in modo strano”, e nei giorni successivi faceva incubi e pipì a letto. Mi chiedeva di fare di tutto per non farlo andare, voleva parlare direttamente con il giudice. Io gli dicevo di resistere, perché quando avremmo parlato con il giudice almeno lui ci avrebbe ascoltato».

Il padre era violento con lui?

«Lo avevo allontanato da casa quando Federico aveva un anno, perché avevo capito i suoi gravi problemi. Negli incontri, comunque, non gli ha mai fatto violenza fisica, ma alcune volte lo ha strattonato e poi urlava contro di lui, anche alla presenza dell’educatore. Questo in effetti aveva fatto delle relazioni preoccupate, aveva notato i comportamenti del padre e li aveva segnalati».

E dopo queste segnalazioni che cosa è cambiato?

«Niente. Al suo posto è subentrato un nuovo educatore, che senza tenere conto del parere del suo collega, che aveva seguito il bambino per due anni, ha sottovalutato il problema e non ha dato nessuna indicazione sull’aggressività del padre».

Quando ha visto Federico per l’ultima volta?

«La mattina del 25 febbraio 2009. L’ho accompagnato a scuola alle 8.10, faceva la terza elementare. Le ultime parole che mi ha detto sono state: “non lo voglio vedere”».

Le va di ripercorrere la tragedia?

«Mohamed Bakarat è entrato nel centro dei servizi sociali armato, con una pistola e un coltello in tasca, senza che nessuno lo controllasse, nonostante fosse una persona con patologie psichiatriche conclamate. E poi era sotto l’effetto di stupefacenti, come emerso dall’autopsia. L’aggressione è avvenuta in corridoio, quando Federico e il padre stavano andando verso la stanza degli incontri. Prima lo ha colpito alla testa con un colpo di pistola, ma di striscio, poi con venti coltellate alle spalle, al torace e alle braccia. Quelle mortali sono state le ultime.

Erano soli?

«No, l’educatore era lì, ma non ha fatto nulla. Era impietrito, terrorizzato, e solo dopo diversi minuti è intervenuto un medico che si trovava lì per altri motivi. Lui ha confermato la presenza dell’educatore. Ha cercato di interrompere l’aggressione, poi ha preso un estintore dal muro, per allontanare l’uomo, ma non è riuscito a fare nulla. E la chiamata al “118” è stata fatta dopo nove minuti dall’aggressione, mentre Federico è morto dopo 57 minuti. Insomma, poteva essere salvato, se solo ci fosse stato personale addetto alla sua sicurezza».

Ci sono responsabilità ben precise secondo lei?

«Noi abbiamo fatto il nome di tre persone. L’educatore, l’assistente sociale e il responsabile del servizio minori. Hanno consentito che mio figlio venisse ucciso, la loro gestione di tutta la situazione è stata un disastro, un orrore».

Aveva segnalato il pericolo?

«In tutti i modi. C’era una montagna di fogli sui tavoli degli assistenti che documentavano la pericolosità del mio ex marito. Andava a prendere Federico a scuola, ci perseguitava anche in vacanza, una volta ha cercato di gettarmi giù da un ponte. A Natale, per la seconda volta, mi ha detto testualmente “non vedrai più tuo figlio, farò un gesto folle”. Tutti sapevano del pericolo, gli insegnanti a scuola, gli allenatori, tranne le persone pagate per difendere il mio bambino, che se ne sono fregati. E dopo l’omicidio, hanno cercato di far credere che fosse stato un fatto “imprevedibile”».

Si era rivolta anche in comune?

«La mattina della tragedia, alle 10.30, sono andata dall’assessore ai servizi sociali Marco Zampieri a supplicarlo di intervenire sulle persone incaricate di controllare mio figlio, perché nessuno fino ad allora mi aveva ascoltato. Lui mi ha assicurato che sarebbe intervenuto, ma non ha fatto in tempo. Alla sera, invece, quando mi hanno chiamato per dirmi quello che era successo, ero nello studio legale tutelare per estromettere i servizi sociali di San Donato dalla gestione di mio figlio».

E dopo la tragedia, ha visto ancora quelle persone?

«Li ho visti al funerale, poi sono spariti tutti. E dopo mezz’ora dalla cerimonia le due psicologhe incaricate dall’Asl per dare supporto a me e a mia madre hanno detto che il loro compito era esaurito. Tutto è stato messo a tacere».

Lei ha promosso una iniziativa per ricordare suo figlio

«Si tratta di un concorso d’arte, finanziato da me, senza nessun aiuto dal comune, sul tema dei diritti dei bambini. Lo scorso anno hanno partecipato tutte le scuole elementari di San Donato, e anche quest’anno. Il 25 febbraio, il secondo anniversario della sua morte, ci saranno le premiazioni presso l’Omnicomprensivo. Lo faccio perché voglio che tutti i bambini sappiano quali sono i loro diritti e non li facciano calpestare, e per tenere viva la memoria di Federico. Lui aveva solo otto anni, ne avrebbe compiuti nove il 19 aprile, e frequentava la terza elementare all’istituto Matteoli. Lui ha pagato per tutti».

Che bimbo era Federico?

«Era un bambino iperattivo, vivace, allegro, leggeva molto, andava bene a scuola. Un bambino molto dolce, sensibile, io e lui ci capivamo con uno sguardo. Aveva un senso del diritto molto sviluppato. Era molto sveglio, e questo ai servizi sociali lo consideravano una mia colpa. Faceva tanto sport, andava a cavallo e giocava a calcio nell’accademia dell’Inter, faceva il portiere».

Come ha passato gli ultimi due anni?

«Ogni giorno è stato una lotta, un inferno. Per due anni sono stata nell’attesa della giustizia, poi ho capito con l’avvocato la “piega” assurda che stavano prendendo le indagini. Ma io farò di tutto, finché sono in vita, perché chi è responsabile della morte di mio figlio paghi, venga rimosso dal suo incarico e non si avvicini mai più a nessun altro bambino o genitore, perché quello che è successo a Federico si può ripetere».

Era il 25 febbraio 2009 quando il piccolo Federico moriva per mano del papà, poi suicida, nel centro socio sanitario di San Donato. A 2 anni di distanza, la mamma Antonella Penati chiede giustizia: «Mio figlio si poteva salvare».

© RIPRODUZIONE RISERVATA