Un allenatore da non dimenticare

Il pallone continua a discutere di moviole impazzite, fuorigioco non dati e follie assortite sugli spalti: ultimi in ordine di tempo i cori beceri e razzisti indirizzati a giocatori e tifosi avversari che hanno causato il primo vero giro di vite nella storia dei nostri campionati, con la chiusura di interi pezzi di stadio (le curve ultrà innanzitutto). Eppure, rispetto a queste brutture, ci sono anche le cose belle da far emergere. Abbiamo recentemente raccontato la favola del Castel Rigone che ha deciso di giocare in Lega Pro in un campo senza più recinzioni, per (ri)educare il suo pubblico al rispetto e alla lealtà verso l’avversario. Ma c’è anche chi ha fatto in passato qualcosa di ancora più grande: si tratta di Arpad Weisz, ebreo-ungherese, completamente sconosciuto alla stragrande maggioranza dei tifosi. Eppure negli anni Trenta Weisz fu una figura mitica come allenatore, vincendo scudetti con Bologna e Inter e soprattutto facendo esordire in prima squadra nell’allora Ambrosiana un giovanotto di belle speranze chiamato Peppino Meazza.Un brutto giorno, però, le vicende del football si scontrarono con la barbarie che sconvolse il mondo: di lui si persero le tracce e solo dopo molti anni qualcuno ricordò ai tanti ignavi, dalla memoria spesso lunga soltanto la durata di una partita di calcio, che quel signore così distinto, un mago ante-litteram della panchina, era morto nelle camere a gas naziste di Auschwitz. È stato bello che nelle scorse settimane, l’Inter, il Bologna e il Milan abbiano voluto alzare il velo del silenzio e dell’ipocrisia ricordando con un triangolare giovanile all’Arena di Milano, teatro dei suoi trionfi, la figura di questo maestro di calcio e di vita.Oggi chi ulula dagli spalti cori irripetibili contro il diverso, (nero, straniero o meridionale che sia), non riesce neppure immaginare chi, a costo della vita, combatté anche per lui, per il suo diritto di esprimersi in ogni contesto, anche allo stadio, seppur in modi così censurabili e vigliacchi. Tornando ad Arpad, negli anni Trenta viaggiava per il mondo: Milano lo aveva attratto nella sua seconda vita, quella di allenatore, metodico, studioso di tattica come pochi: fu il primo a vincere un campionato italiano a girone unico nel 1929-30 con l’Inter, prima di portare il Bologna sul tetto d’Europa conquistando a Parigi, nel giugno 1937, dopo aver battuto Sochaux, Slavia (semifinale) e Chelsea (finale) il Trofeo dell’Esposizione, una sorta di Champions League dell’epoca (da allora si coniò il celebre motto, tra i tifosi rossoblù: “Bologna, che tremare il mondo fa...”). L’emanazione delle leggi razziali lo spiazzò completamente, lui che era abituato a studiare sul campo ogni mossa dall’avversario, tradito invece da quella infame decisione, che costrinse lui e la sua famiglia all’espatrio, e quindi, in una rincorsa sempre più affannosa all’inizio del secondo conflitto mondiale, prima a Parigi e poi in Olanda. Un mattino, però, li vennero a prendere: lui, la moglie e i suoi due bambini. Il lager e i suoi stenti fecero il resto.È importante quindi che la Figc abbia deciso di istituire il torneo giovanile dal titolo “Il calcio unisce, il razzismo divide”, dedicato a Weisz. Che i ragazzi meditino, oltre a giocare.

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