Spacciatore evade dal tribunale di Lodi

Detenuto in attesa di giudizio per l’accusa di spaccio di droga evade dal tribunale di Lodi dopo il processo: il marocchino di 28 anni Mansouri Lekbir, detto Karim, trattenuto per alcuni minuti nel locale riservato agli imputati in arresto dopo che l’udienza si era conclusa, attorno alle 14.15 di venerdì è riuscito con uno spintone e un guizzo fulmineo a sottrarsi al controllo degli agenti di custodia e ha imboccato una scala che porta a un’uscita di sicurezza. Dopo tre giorni di ricerche serrate dell’uomo non c’è traccia.

Al momento della fuga gli agenti senza esitare si sono lanciati all’inseguimento, scavalcando anche il muraglione di cemento armato che separa il tribunale dal parcheggio dell’ex Macello, e il detenuto sarebbe stato visto dirigersi verso il fiume Adda. Qualcuno sostiene addirittura di averlo visto entrare in acqua nella zona della Piarda e di aver notato che nuotava verso la sponda opposta. Proprio sulle rive si sono concentrate le ricerche, di polizia, carabinieri e con la Penitenziaria di Lodi al completo che, impegnando anche vetture civili, ha anche presidiato il ponte, per l’eventualità che lo straniero si potesse essere tuffato per attraversare il fiume. Ricerche anche nella zona del Belgiardino e della piscina Ferrabini. Nel tardo pomeriggio si è tenuto un vertice in procura tra rappresentanti delle forze dell’ordine e i pm per coordinare le ricerche e analizzare il profilo del fuggitivo.

Regolare in Italia e formalmente residente a Vercelli, di fatto era domiciliato a San Giuliano Milanese, in subaffitto irregolare in un appartamento della palazzina all’8 di via Sanremo. Era in carcere a Lodi dal 21 aprile, dopo che il giorno prima la polizia ferroviaria di Milano Lambrate l’aveva arrestato con l’accusa di spaccio di eroina: era stato sorpreso in un parcheggio di San Giuliano mentre parlava con due ragazze italiane, una delle quali sarebbe stata la sua fidanzata, l’altra la fidanzata di un suo cugino (al momento detenuto al Beccaria di Milano). Una delle due aveva 0,6 grammi di eroina nascosti addosso. I tre erano vicino a un’utilitaria rubata nella cui plafoniera c’erano circa 60 grammi di eroina risultata pura al 50 per cento. Nell’abitazione di via Sanremo, perquisita poche ore dopo, in un frigorifero spento c’erano tre involucri contenenti altri 217 grammi di eroina, e 2.100 euro in contanti.

Malgrado le pesanti accuse, lo straniero, assistito dall’avvocato Debora Piazza di Milano, ha deciso di affrontare il processo per rito ordinario, rinunciando quindi allo sconto di un terzo sulla pena e rischiando quindi di andare incontro a una condanna a sei anni. Lo straniero sostiene che quella droga, in un’abitazione condivisa con altri nordafricani (tutti assenti però al momento della perquisizione) non fosse sua, si dice estraneo anche alla sostanza trovata sull’auto e la giovane fidanzata ha negato in aula di aver acquistato la dose dall’amico marocchino né di essersela fatta dare in cambio di favori sessuali come invece sospetta la Polfer. I poliziotti sono arrivati a Lekbir dopo aver arrestato il fratello alcune settimane prima, anche lui per spaccio, a Lambrate: saputo che la droga veniva venduta a San Donato, in un boschetto alle spalle della stazione, si erano appostati e, pur senza riuscire ad assistere direttamente allo spaccio, avevano notato un viavai sospetto e avevano quindi pedinato il sospettato fino in via Sanremo. L’arresto è scattato però solo nei giorni successivi. Due giorni prima che scattassero le manette, i marocchini avevano dovuto cambiare la serratura di casa, dopo aver fatto aprire la porta dai vigili del fuoco, e la difesa non esclude che questo fosse successo a causa di una manomissione o dell’ingresso nell’abitazione di estranei.

Dopo diverse udienze, il giudice Angela Scalise ha rinviato il processo a fine luglio per acquisire le analisi degli 0,6 grammi di eroina sequestrati nel parcheggio, che risultano mancare agli atti, rigettando invece la richiesta di ulteriori testimoni (altri 3 agenti Polfer) chiesta dal difensore. «Dopo l’udienza mi ha detto “sono innocente, ma il giudice non mi crede. Lei vada avanti” - ricordava ieri pomeriggio l’avvocato Piazza -. C’erano anche gli agenti nella stanzetta quando me lo diceva». Il nordafricano si è sempre presentato tranquillo in udienza. Poi, improvvisa, la fuga. Da chiarire se gli fossero già state rimesse le manette.

Già 12 anni fa, allo stesso modo, aveva tentato di evadere un albanese arrestato per una violenta rapina al ristorante del Casellario. Saltando dal parapetto di una scala si era provocato una frattura e non era riuscito a lasciare il perimetro del palazzo di giustizia. I magistrati ora stanno valutando se l’area detenuti sia sicura, soprattutto perché una o più porte di accesso dall’esterno sono dotate di maniglie antipanico e si possono quindi sempre aprire dall’interno. L’aula con le gabbie, al seminterrato, non è utilizzata per i processi da anni e da settimane è letteralmente piena di decine di migliaia di fascicoli perché è in corso il riordino dell’archivio del tribunale penale.

Carlo Catena

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