Sette anni di crisi, nostalgia del passato?

«La guerra dei sette anni», l’ha definita Salvatore Rossi, direttore generale di Bankitalia, in una recente lectio magistralis al Borromeo di Pavia, e niente pare più efficace, insieme alla aggiunta che «Adesso ci sono tutti i presupposti per ripartire». I presupposti sono quelli che sentiamo ripetere tutti i giorni: la riduzione dei prezzi del petrolio, il calo dell’euro, la discesa dei tassi, la riforma del mercato del lavoro, la disponibilità di “risorse” del credito. Sennonché per consolidare i segnali positivi tardano gli investimenti. Bisogna che gli imprenditori ritrovino la voglia di fare industria, di misurarsi con il nuovo contesto tecnologico, tirino fuori gli sghei. Da qui il messaggio incalzante del governo, di uomini politici ed economisti ad agire fintanto che le condizioni macro sono favorevoli; a non commettere gli errori del 1992 quando a seguito dell’uscita dell’Italia dallo Sme e alla forte svalutazione della lira, non utilizzarono i vantaggi del cambio per ristrutturare un apparato superato. Perché le imprese sono oggi tanto timorose? Non sono forse le condizioni accennate le «opportunità» che richiedevano insistentemente nelle loro assemblee? Quali ulteriori affanni, incertezze o meccanismi ne consigliano l’attesa? Una cosa è certa: la crisi procurata dal sistema finanziario ha lasciato segni profondi nell’ economia. Nel Lodigiano, per esempio, sette anni di guerra hanno inciso su un tessuto di imprese fortemente parcellizzato, che mancando le poche isole produttive intelligenti della forza dei numeri ha lasciato sul campo centinaia e centinaia di unità operative,capannoni, uffici, sedi, posti di lavoro. I danni sofferti non sono stati maggiori di quanti sono stati subiti a livello nazionale, dove rispetto a sette anni fa, produciamo un decimo in meno, l’industria ha accusato una contrazione del 17 per cento, le costruzioni di oltre il 30, sono andati distrutti più di un milione di posti di lavoro, gli investimenti sono calati di un terzo, le famiglie spendono l’8% in meno, la povertà è dilagata e solo la ricchezza posseduta da famiglie già ricche è aumentata. Considerato che non si può sostenere l’idea che le banche possono continuare ad accumulare crediti in sofferenza, gli investimenti - fondamentali per nuove tecnologie e tipologie industriali e dare nuova configurazione all’assetto produttivo -, si fanno attendere.Quando si dice investimenti si pensa a Juncker, alle imprese private. Ma molti hanno cominciato a pensare al contributo che potrebbe venire da politiche e aziende pubbliche. A immaginare se non un ritorno dello Stato nella «gestione diretta», quanto meno uno Stato «regolatore». Naturalmente lo chiedono con perifrasi e mezze parole. Come al recente convegno sulla storia dell’Iri, dove è stato presentato il sesto tomo di Pierluigi Ciocca. Un accenno alle “politiche pubbliche” è giunto anche dal governatore di Bankitalia Visco, “per sostenere un sistema produttivo complessivamente ancora in forte affanno”: per incentivare la crescita dimensionale delle imprese, stimolare l’innovazione, sia con la ricerca di base, sia con interventi ad hoc, sia con la formazione di capitale umano dirigenziale.L’attuale stagnazione degli investimenti sembra giustificare (il caso dell’Ilva di Taranto è emblematico) l’intervento pubblico. In troppi casi si è visto come grandi e medi gruppi privati cedano il passo a investitori stranieri, a dimostrazione che l’imprenditoria privata non sempre è all’altezza della gestione di società grandi in un sistema globale (da essa fortemente voluto). Dove sta la risposta al problema oggi che non ci sono più grandi gruppi privati ad aprire la strada alla crescita, e neppure c’è una politica industriale di Stato a svolgere un ruolo di indirizzo strategico? Tornano così ad prendere forma nostalgie per Iri di storica memoria. Anche se due ex-presidenti, Romano Prodi e Pietro Gros, hanno detto chiaramente che quelle sono esperienze irripetibili (e nemmeno tanto desiderabili). La nostalgia la si ritrova nello stesso quesito: se la rinuncia all’IRI sia stata davvero saggia e se oggi la sua funzione non sia necessaria, sia pure in forme diverse, in supplenza al disimpegno del capitale privato.Quanto alle banche, salvate da un lato dalla crisi e dall’altro appesantite nei bilanci dai crediti inesigibili delle imprese, c’è bisogno - lo dice il governatore -, di “un intervento diretto dello Stato che, nel rispetto della disciplina europea”, permetta loro di tornare a finanziare. Imprese sane, s’intende.

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