Se il fotografo riprende la morte

New York, fermata di Times Square: un uomo cade sui binari dopo un litigio con uno squilibrato che lo spinge giù dalla banchina. Non fa in tempo a risalire sul marciapiede: arriva il treno e accade l’inevitabile.Lo sfortunato protagonista si chiamava Ki Suk Han ed era originario del Queens. I suoi ultimi istanti di vita sono stati immortalati da un fotografo che, mentre lui cercava senza fortuna di togliersi dal pericolo, ha scattato una serie di immagini, agghiacciante documento di una morte in diretta. La fotografia di Ki Suk Han che sta per essere travolto è stata pubblicata in prima pagina dal tabloid “New York Post” ed è stata puntualmente rilanciata dalle testate di tutto il mondo, comprese quelle nostrane. E sui siti di molti giornali online la vicenda ha guadagnato una grande quantità di click, come accade abitualmente per i fatti che destano particolare sensazione nel pubblico.L’evento ha destato sensazione e polemiche, non soltanto per la brutta fine dell’uomo e perché nessuno è riuscito ad aiutarlo, ma anche perché fra i presenti c’era quel fotografo che, invece di provare ad agire in suo soccorso, si è preoccupato di scattare le fotografie durante la scena. Lui si è giustificato dicendo che sperava che i suoi flash potessero mettere in qualche modo sull’avviso il conducente della metropolitana, ma l’argomentazione non regge.La verità, purtroppo, è un’altra e non è nuova: la morte vende e le foto più drammatiche o più raccapriccianti sono le più ricercate dalle redazioni giornalistiche e dagli occhi dei lettori. La ricerca dello scoop in questa direzione è continua e generata dalla cinica consapevolezza che l’orrore sbattuto in prima pagina ha un mercato fortissimo.La legge italiana e la deontologia professionale vietano la pubblicazione d’immagini che vadano contro il comune senso del pudore, ma di quest’ultimo, oggi, la sempre più vasta accessibilità mediatica a contenuti di ogni genere ha spostato i confini nella direzione di una sempre maggiore assuefazione a un orrore che è fra gli ingredienti più gettonati dell’offerta mediatica. E chi dovrebbe vigilare per sanzionare i comportamenti scorretti chiude spesso entrambi gli occhi. È ormai da alcuni lustri che l’informazione ci sbatte davanti agli occhi le immagini di vittime degli attentati, morti ammazzati, cadaveri di annegati, corpi smembrati in fosse comuni, che dalle prime pagine dei giornali rimbalzano e si sedimentano negli imperituri archivi delle testate online per aumentare le “visite” e incrementare il numero degli utenti da rivendere agli inserzionisti pubblicitari.Fino a qualche anno fa i media si fermavano di fronte a due grandi tabù, che potevano essere eventualmente raccontati ma mai mostrati: l’atto sessuale e la morte. Oggi i muri sono caduti e tanto l’uno quanto l’altra sono merci alla portata di chiunque, che alimentano un voyeurismo diventato ormai un’abitudine quotidiana.A questo si aggiunge un ulteriore elemento di gravità, rappresentato dalla teatralità e dalla spettacolarità con cui la morte viene raccontata, con un linguaggio e una costruzione di significato in cui i dati di realtà si mescolano con lo stile romanzesco ed emotivamente forzato del racconto. Siamo talmente abituati ai meccanismi di questa deriva verso la docu-fiction che fatichiamo a distinguere un’immagine finta da un documento visivo vero: tutto è mostrabile e rappresentabile secondo una logica che colpisce gli occhi e lo stomaco ma che al contempo riduce la capacità razionale e obnubila la coscienza critica.Se, poi, lo sfortunato protagonista di una foto atroce è uno sconosciuto che vive(va) lontano da noi, il gioco si fa ancora più cinico e perverso, così come più consistente diventa la deresponsabilizzazione personale di fronte alla cattiva (o mortale) sorte altrui.Male hanno fatto le testate giornalistiche a rilanciare l’immagine di Ki Suk Han che sta per essere travolto dal treno in arrivo. E male hanno fatto quanti, fra di noi, si sono soffermati su di essa, magari dicendo a se stessi e agli altri che l’hanno fatto soltanto per denunciare il cinismo dei media. I quali, in fondo, ci danno quello che i nostri istinti peggiori chiedono.

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