Scelta difficile, ma ormai necessaria

Uno dei problemi che tantissimi docenti precari si troveranno ad affrontare in questi giorni è la scelta della provincia ove si desidera entrare in ruolo. Un problema non da poco da risolvere in così poco tempo visto che le domande vanno presentate on-line entro il prossimo 14 agosto. Cosa fare? Cosa potrebbe accadere se la provincia di appartenenza, inserita come prima scelta, non venga presa in considerazione dal sistema, andando a pescare una delle province più lontane? Accade una cosa molto semplice. Intanto va detto che il docente è tenuto a inserire tutte le province d’Italia, su questa base la scelta avviene nel rispetto della gradualità inserita a sistema dall’interessato. Poi è facile intuire come il processo automatizzato va a cercare la provincia dove ci sono posti liberi e disponibili in base alla materia di insegnamento. Questo può voler dire che un docente precario potrebbe svolgere servizio anche lontano da casa centinaia se non addirittura migliaia di chilometri. E tanto per essere chiari visto che di docenti al sud ce ne sono troppi mentre molti posti sono disponibili al nord, la conseguenza sarà che parecchi dovranno svolgere l’attività didattica, almeno per alcuni anni, lontani da casa. E qui nascono i problemi. Alcuni precari, della serie come farsi del male da soli, hanno fatto sapere che per protesta contro gli effetti della legge sulla «Buona Scuola» piuttosto che finire lontani da casa, preferiscono non presentare la domanda. Ma a tal proposito l’avvertimento del Ministro Giannini è chiaro: «Chi non presenta la domanda perde un’occasione irripetibile», ovvero quella di non entrare in ruolo. A questo punto, però, una domanda mi viene facile da porre. Ma allora è più importante uscire finalmente dal fatidico precariato o rifiutare una simile opportunità perché non si vuole correre il rischio di finire in scuole non desiderate ancorché lontane da casa? A tale proposito potrei scrivere una brevissima pagina di quella che è stata la mia personale storia di insegnante prima e di preside poi. Come insegnante ricordo molto bene uno dei miei primissimi anni di insegnamento. Siamo nei primi anni settanta, anni di graduatorie infinite. Un po’ come oggi. Per tentare miglior sorte dopo due anni di supplenze di pochi giorni, decido di presentare domanda di supplenze nella provincia di Foggia. Mai scelta fu da me più azzeccata di questa! Finalmente mi viene proposta una supplenza che per la prima volta si prospetta lunga di tre mesi presso la Scuola Media di Anzano di Puglia, un paesino sperduto nell’interno della Puglia garganica, distante un centinaio di chilmetri. Che la scelta fatta si presentasse complicata, me ne resi conto subito sin dal primo giorno di supplenza. Per raggiungere questo paesino sul modello di «Cristo si è fermato a Eboli» devo, infatti, prendere un treno alle 4,15 (sveglia alle 3,30), scendere a Trinitapoli, aggiungermi ad altri tre colleghi e con loro percorrere un lungo tratto in macchina con una Citroen Ami8 gialla, per arrivare a scuola alle 8,10 circa. Giusto in tempo per l’inizio delle lezioni. E il ritorno? Un mezzo calvario. La giornata si conclude con l’arrivo a casa verso le ore 21,00 circa. Il tempo di mandare giù un boccone tra un occhio che si chiude e l’altro che stenta ad aprirsi e giù a capofitto a letto per alzarsi in tempo utile al mattino dopo. Una supplenza durata qualche mese, ma fatta con grande entusiasmo vista la passione che mi prendeva per il lavoro che avevo scelto di fare. Poi la decisione sofferta. Le cattedre libere sono al nord. Faccio la classica valigia, prendo il treno e su a Milano. Stessa storia si ripete da preside. Le prime sedi di servizio sono state Agrate Brianza, Opera, Assago. Sedi che certamente non sono dietro l’angolo di casa come lo è ora il mio «Bassi». Ma anche in questo caso il sacrificio era nel calcolo delle probabilità, perché a me interessava e interessa svolgere il proprio servizio con quel giusto grado di passione, con quella giusta dose di determinazione per dare così il massimo, rimanendo realista. Se non avessi fatto certe scelte, se non avessi accettato di fare certi sacrifici, avrei forse dato un percorso diverso alla mio cammino professionale. E’ proprio vero che sono gli eventi a determinare gli eventi. Dunque se non si riesce a trovare la scuola sotto casa, si deve mettere nel conto la probabilità che la scuola possa trovarsi a chilometri di distanza o addirittura dall’altra parte dell’Italia. Questo perché ancora una volta si impone un fenomeno che da anni si pone all’attenzione degli addetti ai lavori. Al sud ci sono molti insegnanti disoccupati, al nord ci sono molte cattedre da occupare. Quindi il finale del copione è sempre lo stesso. Molti insegnanti se vogliono insegnare, devono mettere nel conto delle probabilità quella di trasferirsi al nord, di restarci probabilmente per qualche anno e poi decidere se ritornare o restare. Molti ritornano, tanti restano. Tuttavia sono comprensibili le perplessità che affliggono i pensieri di tante mamme insegnanti precarie che vedono come un incubo la possibilità di ritrovarsi di fronte a una infelice scelta di sede che porterebbe a svolgere il servizio forse a centinaia se non a migliaia di chilometri di distanza da casa. Ma rinunciare a questa opportunità che finalmente mette fine a un lungo periodo di precariato, sarebbe da pazzi. I sacrifici se richiesti, vanno fatti, se imposti vanno compresi e non sentiti come passivamente subiti, ben sapendo che l’incerto futuro è destinato finalmente ad essere soppiantato da situazioni che coincideranno con il proprio desiderio di sistemazione. Questa è una regola che vale non solo per la scuola. Quanti di noi sono costretti nella vita a fare scelte non coincidenti con il proprio «desiderata», con il proprio progetto iniziale, accettando comunque di mettersi in gioco non certo per sfida, ma per consapevolezza di dover affrontare situazioni che fanno parte del personale percorso di vita? Lavorare lontani da casa non è né un capriccio, né un malizioso piacere dell’avventura. E’ semplicemente una necessità. E di necessità bisogna fare virtù.

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