Riqualificare il sistema con le imprese

Dal fragore della crisi dell’economia mondiale, iniziata nell’agosto 2007 con lo scoppio della bolla immobiliare americana (i cosiddetti mutui surprime), aggravatasi nel settembre 2008 con il fallimento di Lehman Brother, una volta arrivati da noi gli effetti sono stati accompagnati da due canzoni, quella degli “ottimisti” che instancabilmente ripetevano che era andata meglio di altri, e quella degli “scettici”, che altrettanto instancabilmente ripetevano che il peggio doveva avvenire. Dall’avvio del 2008, alla fine di novembre 2014, anno di crisi perdurante (sia pure con un insieme di caratteri diversi), il numero delle attività d’imprese operative nel Lodigiano ha perso complessivamente 1.233 unità. Mediamente ha detto addio a 176 attività (industriali, artigiane, commerciali, ausiliarie, di servizio, partite iva fasulle) ogni anno distribuite nel 62 Comuni.Parlando di numeri, i numeri si sprecano sempre. Delle 1.233 unità in meno 805, il 65%, appartenevano al magma delle micro imprese. Risparmiamo gli altri numeri, quelli delle formazioni personali, che alzerebbero sensibilmente l’ultima cifra, ma senza aggiungere alcunché alle nostre considerazioni.E’ importante non dimenticare che fino al 2008 l’allarme che si gettava in pasto alla gente comune era un altro: il dilagare delle micro unità veniva ritenuto “pericoloso”. La parcellizzazione – questa la tesi - rischiava di esporre l’economia del territorio più facilmente alla “punizione” del mercato (attraverso il calo della durata di vita media delle nuove imprese, la crescita delle sofferenze, dei fallimenti, dei concordati, delle messe in liquidazione, dell’ unidirezionalità). Cose dimostratesi una volta che si sono inaridite le risorse ed è andato compromettendosi il senso di sicurezza nella gente. Da allora anche i dati hanno assunto un potere più intimidente. Se prima la diminuzione delle imprese individuali poteva essere postillata come un processo di “riorganizzazione” del sistema, nei quattro anni che sono seguiti l’ aurea della razionalità è sparita assumendo quella diversamente preoccupante della fragilità. La contrazione di imprese nei sette anni di crisi come si dovrebbe considerare? Oggettivamente minacciosa, allarmante, oppure compatibile, scusabile, sostenibile?Difficile orientarsi senza qualche distinzione. In particolare senza capire che tipo di imprese ha chiuso i battenti, se grandi, piccole, medie, micro. Quanto capitale ha comportato la volatizzazione. In che settori e con quali motivazioni ha inciso. Con quali danni all’ occupazione e all’aggravamento del Pil provinciale. Lo stato di difficoltà di una economia, non si denuda solo attraverso i dati grezzi forniti dai movimenti demografici delle imprese, ma da tutta una serie di indicatori, anche congiunturali e tendenziali. Quelli ufficiali svelano che il declino della nostra economia non è iniziato con il 2007, bensì prima della crisi, quando aumentavano di numero le unità operative ma scemava il numero degli addetti per unità operativa e le assunzioni prendevano altre forme (precarie), quando gli indici di produzione del manifatturiero, ma anche del commercio e dei servizi si presentavano ballerini. Con la venuta della crisi l’attacco si è semplicemente aggravato e appesantito. Dai semplici riscontri demografici delle imprese locali si può notare come l’alto tournover manifestatosi cinque anni fa, ha sì triplicato i totali delle chiusure annue, ma anche i totali delle nuove aperture e dei subingressi ( dato, quest’ultimo indicativo, per altro verso, della capacità del sistema di assorbire le difficoltà). Il saldo è frutto dell’uscita progressiva di lavoratori autonomi, cioè di unità individuali senza collaboratori familiari né addetti, oltre che di ausiliari del commercio e di cittadini stranieri dediti alle attività marginali, considerati “impresa” perché forniti di partita iva. Si tratta di distinzioni che servono in parte a “ritoccare” l’ impressione rovinosa, suggerita dalle differenti situazioni locali o dal considerare separatamente le cessazioni (mediamente 1.311 ogni anno) dai subingressi e le attività nuove ( mediamente 1.274), anche se i saldi finali confermano la presenza di problemi di vario genere, primo di ordine strutturale.Tant è che il grande show inteso a migliorare il tessuto imprenditoriale aveva preso il via quando ancora era vivace l’ espansione degli autonomi, dei professionisti e delle partite iva. Alle strategie di “risposta” abbozzate, è mancata la carica di l’immaginativa politica, e, insieme, una correzione di obiettivi da parte delle imprese. Certo, si può partire da lontano, dallo Stato, che ha rinunciato per posizione liberista e federalista a scelte di politica industriale. Non si possono però ignorare i fragili contributi del territorio e la scarsa determinazione nel promuovere scelte capaci di sviluppare una “nuova cultura d’impresa” e affermare una visione strategica dello sviluppo del territorio. Le “rappresentanze degli interessi” si sono appagate di fliltare, senza accorgersi che intanto variavano - attraversati da sincronismi e interconnessioni e incognite onnipresenti i riferimenti prodotti dalla globalizzazione, oggi più difficili da padroneggiare per il “piccolo”, (del quale, più volte, sono stati sottolineati gli aspetti problematici).L’impressione è che gli interventi non hanno macinato in senso giusto e soprattutto sono mancate le verifiche. Quelli - non molto incidenti - hanno favorito a pioggia “scelte per tutti”, lasciando che il pendolo rimanesse fermo su un menù di vagli ordinari (chiamiamoli così). Anziché procurare stimolo a una maggiore crescita della dimensione delle imprese, a favorire la transazione verso modelli più avanzati, o il miglioramento della struttura patrimoniale, o l’immissione di nuove competenze, o per una maggiore capacità di innovare e di internazionalizzarsi. Per tante ragioni, anche di cultura, non ci si è dati chiarezza per diffondere nel tessuto operativo una visione dell’impresa dinamica in continuo progresso e cambiamento. E’ mancata (questa la sensazione) una strategia che correlasse tra loro le rappresentanze degli interessi e l’insieme di queste con le istituzioni e con l’apparato del credito (che pure si è tentato), ma avrebbe dovuto puntare a un disegno di selezione e valutazione dei programmi. In presenza di un quadro che non cercava o non accettava (con poche eccezioni) di migliorarsi, insistendo sul “piccolo è bello”, e che insisteva nel disimpegno degli investimenti, le classi dirigenti si sono adattate, quasi dovessero riparare qualche infisso anziché l’ intera casa malandata. Si può tentare oggi qualcosa di diverso? Qualcosa che non sia la riproposizione di meccanismi come quelli che ne hanno decretato lo stallo e l’impoverimento? In primis, forse (sottolineiamo forse) potrebbe essere d’aiuto uno studio, di quelli tosti, non diciamo scientifici, ma di economia politica, che riesami errori e deficienze di questi anni e prospetti ipotesi di diverso futuro economico in chiave sistematica e attualista. Uno studio che non finisca nei tradizionali congegni disapplicativi e tenga conto di quanto fatto rimbalzare negli anni del Consorzio dall’economista Carlo Ricciardi di Pavia, che riconobbe l’assenza nel lodigiano di “spirito imprenditoriale”. Quel che oggi chiameremmo “rischio”. Anticipiamo: “Il coraggio, uno, se non ce l’ha, mica se lo può dare”. La frase manzoniana è vera, fino a un certo punto. La paura non è una condanna del destino. E’ semplicemente la voglia di non vivere. Troppo chiedere ai lodigiani danarosi di rischiare? Se è troppo, accontentiamoci allora senza piagnucolamenti di andare a fare la riserva di qualche altra provincia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA