Redditi, povertà e ricchezza

Nei tanti temi di dibattito “al color bianco” che animano la mutazione antropologica del sistema e impone a Governo, partiti, rappresentanze degli interessi di assumere responsabilità e visione adeguate; tra job act e legge di stabilità, articolo 18 e patrimoniale, rappresentanza e politica, uno, forse perché ostico, sembra sfuggire ai “contendenti”: la diseguaglianza crescente tra redditi e ricchezza e la sua incidenza sulla crisi. Accademici, giornalisti, imprenditori, economisti, sindacati, policy-maker lo hanno sfiorato appena commentando i recenti elaborati Istat e Banca d’Italia. Acli e Caritas hanno proposto di siglare un patto contro la povertà e la diseguaglianza. Non hanno ottenuto risposta.E le cose stanno oggi come stavano: i ricchi sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, la classe di mezzo che quasi sconfina negli squattrinati.Messa in questi termini, la polemica riven dicativa è inevitabile, è costretta a percorsi “antagonistici” (ci siamo capiti). E’ dal governo Prodi, che il problema del rapporto tra redditi e ricchezza si è messo in evidenza, trascinandosi quello del reddito pro capite, e segnatamente dei lavoratori dipendenti, nettamente inferiore da anni a quello di altri paesi europei. Le posizioni non hanno trovato (con poche meritevoli eccezioni)) evidenza su stampa e nei talk show. In altre parole, come se il tenore di vita - calcolato a parità di potere d’acquisto non interessi a qualcuno , se il nostro reddito medio, inferiore a quello europeo in termini nominali, ma anche in termini di potere di acquisto, non è “notiziabile”. Si preferisce parlare di “caduta dei consumi”, senza però porla in relazione alla caduta dei redditi da lavoro e alla lievitazione (“reale”) di altre voci di spesa corrente.Le statistiche dovrebbero servire a capire come in Italia procede la “deprivazione” delle famiglie. Non sempre riescono. Un po’ perché i numeri sono ballerini – dipendono molto dalle metodologie e dai modelli di rilevazione – un po’ perchè risultano ambigui quando rivelano responsabilità nelle scelte o non-scelte della politica. Per tenerci sul casalingo, tre dei nove indici di disagio economico sulle cento statistiche costruite dall’Istat ci fanno capire come viviamo nel nostro Paese. Soddisfano? Probabilmente. Osservano quel che il 90% della gente conosce sopportandolo sulla propria pelle. Tra il 2007 e il 2013, il reddito disponibile reale delle famiglie italiane è diminuito del 13 per cento in termini pro capite. Vale a dire, è tornato ai livelli del 1988. La spesa per consumi è di conseguenza scesa del 10 per cento. Preceduta e seguita nella caduta dalla produzione interna. Un peggioramento dei bilanci familiari così forte per intensità e durata che non ha precedenti dagli anni Cinquanta. Oltre al calo dei redditi, le famiglie hanno subito perdite in conto capitale sul valore della loro ricchezza, finanziaria e reale. Questo peggioramento delle “finanze familiari” ( e delle “condizioni di vita”), ha colpito alcuni più di altri. Istat e Banca d’Italia dicono (da tempo) che da noi la forbice tra redditi e ricchezza si è ampliata a dismisura-Il dato generale è quello che sappiamo: il 10% delle famiglie possiede in Italia il 46,6% della ricchezza netta (la somma delle attività reali, ossia immobili, aziende e oggetti di valore; e attività finanziarie, dunque depositi, titoli di Stato, azioni, eccetera). L’indice che calcola la “concentrazione della ricchezza” ha raggiunto il 64%, rispetto al 60,7% di cinque anni fa. Non ci vuol molto a capire di quanto la fetta di torta si sia ridotta per il restante 90% dei cittadini. A dispetto di questa verità si incontrano ancora “avanguardie” che sostengono posizioni “di principio” o “treoriche”, in realtà interessi precisi. L’idea che la diseguaglianza ha in sé qualcosa di benefico per via di un presunto ruolo “propulsivo”. I fatti hanno dimostrato e dimostrano che il contributo all’ aumento della spesa da parte dei super-ricchi non stimola e non accresce la propensione all’acquisto dei beni e servizi, che è quanto abbiamo bisogno per la ripresa. Non solo. Siamo al punto che se non aumentano i salari e l’adozione di strumenti di sostegno al reddito continua ad essere ostacolato da comportamenti opportunistici, il rischio è di mandare in tilt anche l’equilibrio dei conti Inps ( intervista di Tiziano Treu a Giovanni Minoli, Radio 24, 12 dicembre). Insistere, come si fa da certi schermi tv contro le 80 euro ( decise semplicemente riducendo la tassazione del lavoro) e contro il “rischio” di una estensione ai pensionati, e sostenere l’introduzione della flat tax, può suonare come una scelta provvidenziale, in realtà occulta un trasferimento di risorse là dove meno se ne avverte bisogno. La flax tax potrebbe anche essere una “frustata semplificatoria” nell’ingarbugliato sistema fiscale italiano. Ma come metterla con 100 miliardi in meno di entrate fiscali? Si metteranno a carico dei super ricchi? O andranno a incrementare il deficit pubblico? O manderanno a carte quarantotto il nostro Welfare nel mezzo della più grave crisi economica del dopoguerra?Innocenzo Cipolletta, ex direttore del Centro Studi Confindustria e attuale Presidente dell’Università di Torino, in un breve libro dal titolo provocatorio, “In Italia paghiamo troppe tasse? Falso!” (Laterza, 2014), ci spinge al dunque: “La battaglia per ridurre la spesa pubblica e le tasse è una battaglia che consapevolmente o meno, favorisce i ricchi a scapito dei ceti medi e dei più poveri. Non è quindi una battaglia corretta per nessuno, neppure per i più ricchi, anche perché è appurato, che è preferibile vivere in un paese con buoni servizi pubblici che in un paese dove si pagano poche tasse: La battaglia civile da fare non è, dunque, quella di ridurre le tasse, ma quella di avere migliori servizi pubblici”.

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