Quest’Italia rancorosa

e populista

Il 50° Rapporto del Censis sulla situazione del Paese è un corposo volume di ben oltre le 500 pagine, pieno di numeri e di analisi. Ma nel presentarlo Giuseppe De Rita dice esplicitamente che c’è un punto che gli sta a cuore in modo particolare. E poiché lo dice mentre, con un filo di commozione, annuncia che quelle di oggi, dopo mezzo secolo, sono le sue ultime “considerazioni generali”, la sua riflessione assume il valore di un messaggio. Il punto è questo: si è aperta una pericolosa “faglia” tra il potere politico e il corpo sociale e il soggetto che in passato è riuscito a svolgere una funzione di “cerniera”, cioè le istituzioni, non riesce o non è messo nelle condizioni di farlo. Questa è la crisi più grave, secondo il fondatore del Censis, quella più insidiosa. In prospettiva potrebbe mettere a repentaglio anche quella formidabile capacità di tenuta della società italiana “nel quotidiano” che ancora una volta il Rapporto mette in evidenza, analizzando “una continuità che non è continuismo mediocre perché ha dentro di sé una vitalità incredibile”.

Il paradosso di questa contrapposizione “rancorosa”, in cui anche il linguaggio diviene insulto invece che strumento di comunicazione, è che potere politico e corpo sociale finiscono per convergere soltanto nel populismo.

Ma che cos’è che ha innescato questa spirale così pericolosa?

Non è una novità del nostro tempo la presenza di un’élite politico-economica all’interno della società. Quel che diventa inaccettabile, osserva De Rita, è l’idea che questa élite possa prescindere dal corpo sociale perché dipende da altri fattori, esterni (basti pensare alla finanza internazionale) o interni (il raggiungimento e la conservazione dei propri obiettivi di potere). A questo processo il corpo sociale reagisce puntando tutto sulla propria autonoma capacità di “reggersi”, prescindendo a sua volta dalla presenza di strutture politiche e istituzionali.

Questo duplice arroccamento fa emergere (ne è l’effetto e al contempo anche la causa) la mancanza della funzione di “cerniera” che nella visione di De Rita è il compito che sono chiamate a svolgere le istituzioni, a cui potere politico e corpo sociale dovrebbero avere il coraggio di restituire un nuovo ruolo se vogliono provare a uscire dall’impasse.

Qui si potrebbe usare anche una parola nobile come mediazione, se essa non fosse diventata nel linguaggio corrente – per colpa di precisi comportamenti, soprattutto, ma anche per un certo pregiudizio ideologico – sinonimo di intrallazzo, compromesso al ribasso, filtro burocratico, corruzione.

E poi, a fronte delle sempre più estese possibilità di “disintermediazione” personale a cui ci hanno abituato le tecnologie digitali, suonerebbe suo malgrado come un vocabolo passatista. Meglio, allora, il termine usato oggi dal fondatore del Censis: “fare giunture”. Perché in un corpo – anche nel corpo sociale – le giunture connettono tra loro le diverse parti e le fanno funzionare in modo armonico. Le giunture non sono un freno al movimento, ma al contrario sono quelle che lo trasmettono in modo utile e coordinato.

Dunque abbiamo urgente e persino drammatico bisogno di “fare cerniere”, di “fare giunture”. Potremmo aggiungere, con una terminologia che ci è diventata familiare, “fare ponti” invece che costruire muri. Che sia questo il messaggio che arriva da un’analista tanto autorevole, quanto lucido e assai poco incline al buonismo come Giuseppe De Rita, è un elemento di riflessione per tutti.

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