Quando si vive alla frontiera

Fin dall’inizio, la vita di ogni essere umano è un dono e un incontro. Anzi, una successione di doni, una processione di incontri, grandi o meno. Ed è sempre anche un invito incessante: quello a superare le proprie barriere, ogni frontiera, la chiusura nel proprio mondo. Così anche la mia vita. Mio padre, contadino veneto, mi ha dato il senso della natura, della terra, dell’osservare il grano che matura, la gente che passa, il forestiero che arriva e ti sorprende. Ma anche il senso del contemplare il lavoro fatto nel proprio campo, come Dio al settimo giorno della creazione. Quasi una distanza salutare, per dire che quello che è compiuto non ti appartiene del tutto... Mia madre lavorava all’ospedale di Dolo; mi ha dato il senso del corpo, della sofferenza, della compassione per l’altro, della vita che nasce e che muore. Il senso appassionato nel donarsi per l’esistenza degli altri. Entrambi, papà e mamma, mi hanno dato il senso di Dio, della sua presenza nella mia storia, del suo camminare insieme ai miei passi, ai miei sforzi, per rendere la vita più umana, coraggiosa e, soprattutto, fraterna.A due passi dal nostro paese, la città di Padova e la sua università mi hanno dato una formazione letteraria, l’osservazione che si fa attenta e critica. Mentre l’altra città vicina, immersa nelle acque della laguna, mi diede già da piccolo il senso dell’isola e del cosmopolitismo, del nostrano e del foresto (colui che viene da fuori), del particolare e dell’universale. Il senso della terra e dell’acqua, del limite e dell’avventura, della contrada e del mondo.I missionari scalabriniani, che ho incontrato sul mio cammino, mi hanno dato la passione e la compassione per gli emigranti italiani all’estero, anzi per ogni migrante, per colui che ricostruisce la sua vita sulla terra degli altri, che «fa sua patria il mondo». Mi hanno dato il valore della nostra cultura e della nostra fede, quelle che ci hanno generato e ci accompagnano in qualsiasi angolo della terra con gli imprevisti e le sorprese della nostra avventura: il migrare. Il carisma scalabriniano mi ha dato il gusto della libertà dei figli di Dio, del saper valorizzare e, allo stesso tempo, relativizzare la cultura dell’uomo, la sua terra di origine. Mi ha dato il senso della vita come itineranza, come cammino con chi lo fa con i propri piedi, i propri occhi e la propria esistenza, i migranti. Mi ha fatto capire che il destino degli uomini è la terra promessa di Dio: la fratellanza. E sono partito in missione: nella grande periferia di Parigi al Centro interculturale per giovani di Ecoublay, a Ginevra e nel suo mondo internazionale, alla parrocchia multiculturale di Londra, dove mi trovo attualmente. A gruppi di giovani emigrati ho fatto vivere molte volte un pellegrinaggio nelle piccole comunità cristiane della Chiesa del Marocco, disperse come piccole oasi nell’islam e poi al deserto del Sahara: incontro con comunità di frontiera e con le frontiere stesse della nostra fede.Il mio cammino, in fondo, è stato un dono continuo degli altri e degli incontri con l’altro, colui che è differente, generato da altri mondi. Mi hanno formato, plasmato, incantato, interrogato, stimolato senza misura. Segretamente mi hanno incoraggiato a superare frontiere di ogni tipo, culturale, mentale, linguistico o spirituale. Mi hanno ricordato che la vita è una sfida e un’avventura collettiva con un popolo partito dalla propria terra. E che si ritrova, come per miracolo, con un cuore più grande del normale, perchè la sua esistenza è una lotta e una danza, qualcosa di duro e di bello da vivere. In cui si impara ad amare con lo stesso amore la terra di accoglienza come quella di origine.In fondo, con tanti volti, culture e lingue differenti che ho incontrato mi sento un altro. Un po’ inglese, un po’ francese, un po’ maghrebino ed altro ancora, ma in fondo all’anima mi sento un veneto originale. Con gli occhi aperti sul mondo. “O caminho se faz caminhando” ripete uno scrittore brasiliano. Anche per fare un uomo o un missionario è così. God bless you!

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