Quando la scuola non vale niente

Sappiamo quanto è dura la vita in certi Paesi sudamericani, ma la notizia che arriva dalla Bolivia è di quelle che lascia esterrefatti poiché cerca di fa diventare razionale ciò che di razionale non ha proprio nulla. In questo Paese non solo l’orologio del Parlamento gira in senso antiorario per volontà del Presidente boliviano convinto, come dice, di «riaffermare così la nostra identità», ma questo è anche il Paese dove i bambini si scontrano con la polizia per rivendicare il diritto a cominciare a lavorare già a partire da dieci anni e non da quattordici come prevede la costituzione. Per il «sindacato dei bambini», promotore di alcune clamorose iniziative, non consentire ai ragazzini sotto i quattordici anni di lavorare, è una grave violazione dei diritti costituzionali. Evidentemente da quelle parti la scuola vale zero. Come scrive Thomas Hobbes «primum vivere deinde philosophari» (primo vivere, poi filosofare). Per certi versi è una situazione che ha qualche attinenza con la nostra. Purtroppo anche da noi la scuola non ha più l’importanza di una volta. Per i sociologi se fino agli anni ottanta la scuola aveva anche la funzione di «ascensore sociale», oggi quell’ascensore si è scassato e nessuno più riesce a salire ai piani superiori. Fuori di metafora un tempo il figlio di un contadino come me, ad esempio, grazie al pezzo di carta conseguito con gli studi universitari, poteva aspirare a migliorare la propria condizione sociale, organizzando il futuro secondo le aspettative affidate al titolo di studio conseguito. In fin dei conti si affermava il diritto di riscatto sociale che consentiva, ai «capaci e meritevoli», un indubbio salto di qualità di vita. Nel mio caso la terra avara conosciuta dai miei genitori ha smesso di essere avara anche con me. Si potrebbe obiettare che non sempre un simile ragionamento può condurre a una sua logica conclusione. Se tutti i figli di contadini, infatti, decidessero di studiare, di diplomarsi, di laurearsi e di fare l’insegnante, chi mai andrebbe a lavorare nei campi? E ancora. Nella scuola ci sarebbero tanti posti quanti sono gli aspiranti insegnanti? A veder le graduatorie ingrossate all’inverosimile, parrebbe proprio di no. Come sempre una simile questione è da inquadrare non solo nel rispetto dell’equilibrio tra domanda e offerta, ma anche nella selezione che a monte non dovrebbe mai mancare pur nella certezza di garantire ai «capaci e meritevoli» di affermarsi nella vita. Un concetto discutibile quanto si vuole, ma che ha fatto breccia a Bologna dove di recente la fondazione Roland Berger Italia con l’aiuto degli imprenditori intende partire con un progetto che miri «a promuovere la meritocrazia, dando dignità ai ragazzi meritevoli, anche quelli meno abbienti». La scuola oggi ha mollato un po’ la presa e tende a mandare avanti quasi tutti indipendentemente dalle effettive capacità e dagli effettivi meriti dei singoli. Di qui tra l’alta percentuale di diplomati e la bassa percentuale di laureati, il passo è breve. La selezione è intesa dai più come un lavoro sporco che la scuola non dovrebbe mettere in atto, perché compito della scuola è promuovere. Ma che vuol dire promuovere? Vuol forse dire abbassare il livello dell’asticella ed essere così meno esigenti e più indulgenti? Siamo sicuri che questa sia la soluzione giusta? E’ proprio questa la scuola che vogliono i genitori? Francamente ho dei dubbi. Eppure a leggere certi fatti di cronaca, parrebbe proprio di sì. Al termine dell’anno scolastico tante sono state le notizie di genitori arrabbiati per la bocciatura del figlio o, peggio ancora, perché «indebitato». Per non parlare di genitori insoddisfatti pronti ad avviare azioni legali per dare una lezione a chi le lezioni è chiamato a fare. Morale della favola: per stare tranquilli oggi nella scuola basta promuovere. E non sto parlando di promozione intesa come crescita della personalità, di promozione umana, di promozione della persona, ma di promozione in senso stretto, ovvero di promozione scolastica. Dunque niente brutti voti. Ed è proprio quello che sta pensando di fare il ministro dell’istruzione francese. Basta con le valutazioni negative, basta con i brutti voti. Gli insegnanti francesi sono considerati troppo severi e il troppo rigore blocca la crescita dei ragazzi. Gli studenti francesi stanno perdendo terreno nelle valutazioni internazionali e non vorrei che il ministro transalpino pensi al sei politico che tanti danni ha già fatto da noi negli anni sessanta. So benissimo che quello della selezione nella scuola è un problema complesso e delicato che non può essere liquidato con qualche battuta. Eppure da una generazione all’altra qualcosa è cambiato. E’ cambiata l’idea di scuola. Oggi prevale l’idea di «scuola matrigna» che non rende poi quello che promette prima. La scuola sembra essere diventata un ostacolo dal punto di vista sociale. Il pezzo di carta molto spesso non serve più a concretizzare l’aspettativa per cui viene conseguito. Anzi. Talvolta siamo di fronte a ragazzi che, sia pur con una laurea in tasca, pur di lavorare, accettano lavori non adeguati al titolo di studio ottenuto. Se per i genitori il pezzo di carta non è più considerato utile a scalare la scala sociale, per i ragazzi il pezzo di carta dice poco o niente. E’ sufficiente, per questo, ricordare i tanti nostri giovani che si recano all’estero per lavorare come camerieri, lavapiatti, facchini, concretizzando in questo modo quella che secondo me è la regola principale da osservare nella vita: fare ciò che in coscienza uno si sente di fare. L’importante è farlo bene. Si può avere successo in un ambito che non ha nulla in comune con gli studi fatti, come pure si può vivere un fallimento professionale frutto di una scarsa preparazione conseguita durante il percorso di studi. A che vale, dunque, avere in tasca una laurea quando poi non si è in grado, ad esempio, di insegnare, di fare l’architetto, l’ingegnere, il medico, l’avvocato e così via dicendo? «Non men che saver, dubbiar m’aggrata» (Dante, Inferno, Canto XI°), per dire che dubitare è positivo in quanto le risposte possono solo illuminare di più.

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