Porte aperte in ospedale. Di notte...

Negli ultimi periodi “Il Cittadino” ha pubblicato numerosi articoli (l’ultimo di Cristina Vercellone la scorsa settimana) dedicati ai furti e agli accessi indiscriminati che si verificano all’ospedale di Lodi. È senza dubbio un problema che non riguarda solo Lodi, ma da noi è più rilevante per una serie di criticità che si sono trascinate nel tempo. Facendo un salto all’indietro di quasi 50 anni, mi è tornata davanti agli occhi un’immagine che conservo ben viva nella memoria: una moltitudine di persone (in numero crescente più le lancette dell’orologio si avvicinavano alle 18, orario stabilito per l’ingresso dei visitatori) in attesa in viale Savoia davanti ai cancelli dell’ospedale rigorosamente chiusi. Al di fuori dell’orario stabilito, per entrare in ospedale dovevi passare dalla portineria e se non avevi motivazioni adeguate non c’era verso che ti facessero passare. Allora l’ospedale, pubblico o privato che fosse, era un luogo dedicato alla cura degli ammalati ed era quindi più che giustificato limitare gli accessi dall’esterno. Adesso l’ospedale, pubblico o privato che sia, è un’azienda che eroga prestazioni (a vantaggio di chi non è dato sapere: oltre 2,5 miliardi di Euro l’anno, pari al 33% del totale della spesa sanitaria lombarda, destinati al privato – fondi neri compresi? – non sono certo noccioline!) e quindi è inevitabile che ci sia un continuo via vai. Un significativo contributo a tale stato di cose è dato, purtroppo, dalla spropositata richiesta di esami e accertamenti che viene prescritta da noi medici: nell’ars medica, ormai, il ragionamento clinico ha ceduto il passo ad un modo standardizzato di operare considerando i pazienti come files di un computer e dimenticando che esiste “il malato” non “la malattia”.

Il cambiamento operativo degli ospedali non è stato accompagnato dai necessari adeguamenti strutturali (separazione degli spazi, canali d’accesso diversificati) e il risultato è quello che vediamo ogni giorno: infermieri costretti a fare lo slalom tra la gente che passeggia negli spazi comuni, pazienti barellati che solcano le code delle persone in fila agli sportelli del CUP, pazienti che per accedere agli ambulatori devono passare tra le bancarelle dei mercatini delle più svariate associazioni….. Negli altri paesi, le decisioni relative a variazioni d’uso vengono assunte a fronte di un progetto globale con tempi e costi di realizzazione certi e definiti. Da noi, l’iter è più complesso: alla decisione politica (che già di per sé richiede tempi apocalittici e spesso è dettata più da convenienza che da effettiva necessità), segue il progetto preliminare, l’esame e l’approvazione, la gara d’appalto (il più delle volte rigorosamente al ribasso), le variazioni in corso d’opera, l’esecuzione dei lavori a spizzichi e bocconi, le perizie, la revisione dei costi… quando l’opera è terminata, oltre a costare almeno tre volte il prezzo ipotizzato, è già vecchia e superata (vedi terza ala).

Altro aspetto negativo è il campanilismo. In tempi di vacche grasse, ogni politico cercava di accattivarsi le simpatie della gente del suo bacino elettorale costruendo ospedali che sono così sorti come funghi (non serve andare tanto lontano per avere la conferma…). Oggi alcuni ospedali andrebbero chiusi e altri destinati ad uso diversificato ma i politici regionali non decidono nel timore di perdere voti scontentando la gente che è convinta (sbagliando clamorosamente) che la valida assistenza sanitaria debba essere misurata con la distanza in metri dell’ospedale dalla propria abitazione. Gli interventi di manutenzione e ristrutturazione hanno costi incompatibili con le ristrettezze di bilancio e quindi vengono fatti solo in parte e dilazionati nel tempo e magari quando vengono completati non sono più funzionali.

Pur con tutte le ristrettezze e le limitazioni esistenti, è tuttavia certo che qualcosa possa e debba essere fatto. Riferendomi alle affermazioni fatte da alcuni dirigenti dell’ospedale e riportate nell’articolo di Cristina Vercellone, mi permetto due considerazioni.

La prima: dire che l’ospedale non può essere blindato perché è un luogo pubblico non è del tutto vero. Vi sono tanti esempi di luoghi pubblici (tribunale, banche, comune, supermercati) dove la gente accede ma solo in spazi ben definiti e non è certo libera di andare dove vuole.

La seconda: dire che i reparti non possono essere chiusi per ragioni di sicurezza è una colossale presa per i fondelli. Da tempo esistono in commercio porte apposite che garantiscono la sicurezza in uscita e permettono l’entrata solo a chi è munito di badge. Molti altri ospedali le hanno da tempo installate: perché a Lodi non si può fare altrettanto? Con tale soluzione, l’accesso ai reparti sarebbe limitato agli operatori e sarebbe salvaguardato il libero accesso all’ospedale per chi deve fruire di altri servizi.

C’è però un’ultima riflessione che deve essere fatta. Lasciando a parte quelli che entrano in ospedale per compiere furti (e che ovviamente non si fanno riconoscere), è necessario sottolineare che nel tempo è andata aumentando la maleducazione e la protervia di molte persone che ritengono di poter fare tutto ciò che vogliono e di essere esentati dal rispetto delle regole. Gente che fuma negli androni delle scale, che si siede (in alcuni casi il termine esatto sarebbe “si stravacca”) sul letto dei pazienti che è andata a trovare, gente che si accalca in numero impressionante all’interno delle camere di degenza senza rispetto delle norme igieniche, gente che porta nelle stanze ogni sorta di cibo, gente che nei corridoi dei reparti di degenza parla ad alta voce come fosse allo stadio o conversa bellamente al cellulare, gente che tratta gli infermieri come se fossero schiavetti a loro disposizione… e l’elenco potrebbe continuare.

In fin dei conti la ricetta per guarire dalla malattia è semplice: che l’azienda ospedale faccia gli interventi strutturali necessari e che la gente torni a considerare l’ospedale come un luogo in cui la centralità è data dal malato, dal suo diritto alle cure e alla tutela della privacy e che il rispetto delle regole non è un optional ma un atto dovuto nell’interesse collettivo.

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