Quello di lunedì mattina, 27 giugno, su alla Maddalena di Chiomonte, nell’Alta Val di Susa, non è stato un fatto improvviso, tanto meno inatteso. I valsusini, senza distinzione di parte, se lo aspettavano. Magari non così “last minute”. S’intuiva che lo Stato aspettava solo il momento opportuno. Oltre il 30 giugno non poteva andare. Neanche uno Stato come il nostro, l’Italia, che è solito giocare al rinvio. Sarebbero saltati degli accordi internazionali e si sarebbero persi non pochi soldi, con il rischio di una pesante penale. E così all’alba di lunedì 27 giugno, le Forze dell’Ordine hanno “riconquistato” all’Italia il territorio della Libera Repubblica della Maddalena, consegnandolo alle ditte che dovranno cantierare il primo grande lavoro della Tav valsusina, la discenderia di Chiomonte. Gli scontri sono stati duri. Ci sono state decine di feriti, ma viste le premesse, possiamo dire che è ancora andata bene. Si temeva molto peggio. Certo da lunedì 27, c’è chi canta vittoria, ma subito c’è chi gli risponde: avete vinto una battaglia, non certo la guerra. E allora si capisce chi, vivendo oltre le Chiuse di manzoniana memoria, chiede preoccupato: ma adesso cosa succederà? Francamente non lo sappiamo. Possiamo pensare che la lotta per la Tav valsusina sarà ancora lunga e dura. Certo, ora è comodo scaricare tutte le colpe sui “No Tav” valsusini. Ma quando si potrà rileggere con calma questa lunga storia, questo spreco di carte e di progetti, ancor più di soldi, allora si capirà che lo Stato è stato molto confuso, disordinato, diviso. E molte volte, troppe volte è stato assente. La fuga dello Stato dai fatti di Venaus, nel dicembre del 2005, è ancor oggi una macchia. A memoria, poi, non ci torna in mente un capo del governo, un ministro degli Interni o dei Trasporti che sia venuto qui in Valle in tutti questi anni ad ascoltare le “ragioni” del popolo “No Tav”. Che pena poi sentire il ministro degli Interni commentare il buon esito dell’operazione mentre usciva da via Bellerio, dove c’è la sede del suo partito. La qualità di uno Stato si vede anche in queste cose. Vorremmo tanto poter rispondere all’amico che ci ha chiesto – “e adesso cosa succederà?” – che i valsusini “No Tav” non dichiareranno mai per questo guerra all’Italia. Certo alla gente di Val Susa sta a cuore il proprio cortile, ma non solo. E i valsusini non sono né miopi né ottusi. E hanno smesso da tempo di andare sulle diligenze. Dai tempi di Cavour sono una valle “ferroviaria”. Ma dal popolo dei “No Tav” valsusini, dalla loro lotta per molti antimoderna, incomprensibile una domanda arriva chiara a tutti: lo sviluppo di un Paese sta solo nei grandi ponti e nei lunghi corridoi ferroviari?La via difficile, paziente del dialogo con il territorio resta, secondo noi, l’unica percorribile. Il capo del governo a caldo ha commentato: “Abbiamo ascoltato tutti, ora basta”. Dubitiamo che ci sia stato sempre questo ascolto. Comunque sia, non si dica: “Ora basta”. Dopo i fatti di lunedì 27 servono dei pompieri e non degli incendiari.
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