Nordafrica, Europa in fibrillazione

L’Europa è in fibrillazione, non meno del Maghreb. Le rivolte popolari in Tunisia, Egitto e Libia hanno scosso, sotto vari punti di vista, i governanti del Vecchio continente, fino a trovarsi al centro di una fitta rete politica e diplomatica che parte dall’Europa, giunge negli Stati Uniti e, mediante Nato, Onu e Lega araba, chiama in causa il mondo intero. Il Mediterraneo del sud non è solo un problema “mediterraneo”, ma è un banco di prova mondiale. Democrazia, diritti umani, sviluppo economico e giustizia sociale sono, assieme alla pace, beni irrinunciabili e indivisibili e devono essere riconosciuti in ogni angolo del pianeta. Per questa ragione, dinanzi alla protervia dei dittatori, né l’Europa né gli altri attori planetari hanno potuto rimanere con le mani in mano. Ma c’è voluta, almeno apparentemente, l’iniziativa della Francia del presidente Sarkozy per passare dalle parole ai fatti. Si osserva che, in calo di popolarità, l’inquilino dell’Eliseo abbia voluto accelerare i tempi dell’intervento, esponendo l’azione internazionale sulla Libia al rischio del fallimento. Ma è altrettanto vero che solo in questo modo, e con l’appoggio del presidente americano Obama e del premier britannico Cameron, si è potuto dar vita a un’azione bellica attesa da giorni e invocata dagli oppositori del colonnello Gheddafi. Dopo un primo, apparente accordo senza defezioni, appena gli aerei da guerra hanno preso il volo sono emersi i distinguo. Ci sono Stati che appoggiano le operazioni militari con dispiegamento di mezzi, altri che le appoggiano ma con minor coinvolgimento di mezzi e basi, altri che le appoggiano ma stanno a guardare. Altri, infine, che si tirano indietro. La “diplomazia dei distinguo” è necessaria al momento di assumere le decisioni, ma una volta stabilita la necessità di un’azione militare, sotto l’ombrello Onu e che abbia lo scopo prioritario di difendere le popolazioni civili, rompere il fronte diventa pericoloso. Per tutti. Anche nel caso dell’operazione “Odissea all’alba” occorre essere chiari: la guerra, qualunque essa sia, per qualunque ragione venga dichiarata e combattuta, non è mai una soluzione positiva in sé (perché porterà uccisioni, sofferenze e distruzioni) e tanto meno può considerarsi una soluzione definitiva ed efficace (dopo le bombe occorrerà ricostruire, in senso materiale, politico e morale). Prima cesseranno i venti di guerra, meglio sarà. Ma l’impegno della Comunità internazionale a intervenire fra Tripoli e Bengasi va inteso nel senso di una “ingerenza umanitaria” volta a salvaguardare un popolo martoriato e oppresso dal suo stesso leader e ad aprire nuove strade per la democrazia e la ricostruzione. Nel frattempo si moltiplicano – e questo è un effetto collaterale della guerra – i timori di attentati o di attacchi a sorpresa oltre lo scacchiere nord africano. Tanto meno si arresta il flusso dei rifugiati oltre i confini libici verso i paesi confinanti e la fuga – più che comprensibile – via mare. Di tutti questi temi, oltre a quello del dopo-guerra (aiuti e cooperazione per lo sviluppo economico e sociale, che dovranno seguire la fase più acuta della “caccia” a Gheddafi), si occupano in queste ore le istituzioni europee, riunite a Bruxelles. In particolare per il 24 e 25 marzo è fissato il Consiglio dei 27 capi di Stato e di governo Ue. Un’altra emergenza si pone dunque sulla strada dell’integrazione comunitaria: affrontarla insieme, secondo il più limpido spirito di solidarietà, potrebbe condurre alla soluzione migliore.

© RIPRODUZIONE RISERVATA