«Nel Lodigiano la mafia c’è da 50 anni»

«Lodi è un territorio abbastanza compromesso: le infiltrazioni mafiose sono un problema che ha quasi 50 anni». A raccontarlo ai giovani dell’Itis Cesaris di Casale è stato «uno sbirro al cento per cento»: I.M.D., della squadra “catturandi” di Palermo, uno degli uomini che ha incastrato mafiosi del calibro di Brusca e Provenzano, intervenuto sabato in occasione della 15esima giornata della legalità. Lo “sbirro” si è presentato a volto scoperto, ma con un nome fittizio, Antonio, e nessuno ha potuto fargli fotografie: anche questo significa dare la caccia a Cosa Nostra. “L’esperto” dei telefonini e delle intercettazioni ha conversato per oltre due ore con gli studenti che gli hanno rivolto domande toste, compresa «qual è la relazione fra mafia e politica?».

«Se il territorio non è ricettivo, la mafia non si infiltra - ha premesso Antonio - e questo dipende dal silenzio delle gente, dall’omertà e dal coinvolgimento più o meno diretto di chi avrebbe dovuto vigilare». «La politica - ha continuato -? Prima i mafiosi si servivano dei politici, adesso gli affiliati delle famiglie mafiose studiano e fanno carriera e si infilano in politica».

Di certo per Antonio bisogna fare attenzione ai modi con cui la mafia tenta di riciclare denaro sporco, ma anche fumare uno spinello rinforza la mafia, oltre a danneggiare i giovani. «Se spendo cinque euro per una droga leggera - ha spiegato -, un euro finisce allo spacciatore e gli altri quattro ai mafiosi per armi, estorsioni ed eroina».

Antonio è entrato nella squadra mobile nel 1992, poco dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. All’inizio neppure sua moglie sapeva della sua vera attività: le disse che era della sezione passaporti tra mille equivoci da film comico, raccontati da I.M.D ai giovani studenti fra qualche sana risata.

Tra i ragazzi del Cesaris inoltre sono stati premiati i vincitori del terzo concorso «Coltiviamo la giustizia», intitolato alla memoria dell’ex studente Matteo Biagi: Andrea Medaglia, Antonio Spanò, Emanuele Zani, Sara Pandini e Chiara Bovera, che hanno partecipato in estate al campo di lavoro a Melito Porto Salvo, in Calabria, realizzato su terreni confiscati alla ’ndrangheta.

Ed è proprio dai giovani che secondo Antonio parte il riscatto. «Dal 1992 a Palermo è cambiato qualcosa di importante, perché prima, quando veniva arrestato un mafioso, si esultava per un paio di giorni e stop, mentre dal 2005 i giovani hanno iniziato ad andare sotto i nostri palazzi a esultare e a tappezzare la città di adesivi con la scritta “Un popolo che paga il pizzo è un popolo che non ha dignità”: si è passati da una comunità silente a una comunità attiva».

Inutile infine provare a capire i perché di mafiosi che fanno una vita da latitanti, perché quella è gente che sgozza cavalli per fare sentire ai figli l’odore del sangue già da piccoli e ciò che li spinge si chiama potere: quello di decidere della vita o della morte di qualcuno con un’occhiata, una parola, una macchina da scrivere.

© RIPRODUZIONE RISERVATA