Migranti, è davvero emergenza?

«L’uniformità della lingua, lo spostamento di parole da un contesto all’altro e la loro continua ripetizione sono il segno di una malattia degenerativa della vita pubblica che si esprime, come sempre in questi casi, in un linguaggio stereotipato e kitsch, proprio per questo largamente diffuso e bene accolto». Così scrive Gustavo Zagrebelsky nel suo breve, illuminante saggio Sulla lingua del tempo presente, nel quale analizza alcuni «luoghi comuni linguistici» che, pur non compresi appieno nel loro significato, strutturano il sentire comune degli italiani e danno forma alla loro vita politica. Esempio del potere di una lingua che “pensa” per noi è l’espressione «tsunami umano»: inaugurata un mese fa dal Presidente del Consiglio a seguito delle rivolte popolari in Africa settentrionale, indica la possibilità e il timore che milioni (così si disse) di migranti e profughi di quelle nazioni prendano il mare alla volta dell’Italia. E dire che fino al 26 dicembre 2004, quando si verificò il grande maremoto nel sud est asiatico (230.000 morti stimati), la parola «tsunami» era sconosciuta ai più. E per chi, da allora, l’avesse dimenticata, è tornata con insistenza dopo l’11 marzo 2011, ovvero all’indomani del sisma che ha colpito il Giappone (oltre 30.000 vittime tra morti e dispersi). Parlare di «tsunami umano» significa dunque evocare consapevolmente un immaginario catastrofico e imprevedibile, tale da far arretrare o da respingere le voci che richiamano con coraggio e dignità al dovere di accoglienza dell’Occidente, già occupante coloniale di quei paesi e già solido alleato dei governi corrotti rovesciati in nome del diritto globale alla democrazia.

A distanza di un mese dall’annuncio, lo «tsunami umano», però, non è arrivato: sulle coste italiane, in una Lampedusa mantenuta al collasso per settimane, in quattro mesi sono sbarcate circa 30.000 persone (per lo più di nazionalità tunisina, nelle ultime settimane anche native dell’Africa centrale e orientale, comunque salpate dalla Libia), un afflusso prevedibile, pari al 2% rispetto a quanto profetizzato: non importa, purtroppo, perché l’effetto annuncio ha comunque raggiunto lo scopo al di là del valore reale dei numeri.

È bene evidenziare - come hanno fatto i vescovi lombardi al termine della Conferenza episcopale regionale dell’11 e 12 aprile, sulla base di dati Unhcr, Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – che l’Italia accoglie ora 55.000 profughi e nel 2010 ha ricevuto 10.000 nuove domande di asilo.

La Germania conta 600.000 rifugiati (40.000 domande di asilo nel 2010) e 200.000 sono i rifugiati in Francia (47.000 i richiedenti asilo nel 2010); mentre all’epoca della guerra nell’ex Jugoslavia, negli anni Novanta, l’Italia ha dato asilo a 77.000 rifugiati.

Se tuttavia sul nostro paese non si è abbattuto uno «tsunami umano», si è certamente rovesciato uno «tsunami normativo», che lascia del tutto indifferente buona parte dell’opinione pubblica ma che risulta davvero allarmante sotto il profilo della legislazione, come ha rilevato l’ASG, Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione. In due mesi (dal 12 febbraio al 13 aprile) sono stati emanati, nell’ordine: Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 12.02.2011; Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3924 del 18.02.2011; Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3925 del 23.02.2011; Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 5.04.2011; Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri del 7.04.2011; Circolare del Ministero dell’Interno n. 2990 dell’8.04.2011; Ordinanza del Presidente del Consiglio dei Ministri n. 3933 del 13.04.2011.

Sette norme in tutto, dettate dall’«ineludibile esigenza di assicurare l’urgente attivazione […] di interventi in deroga all’ordinamento giuridico».

Sono nell’insieme una ventina pagine, scritte in carattere minuscolo, fitte di articoli, incomprensibili se non coordinate con il testo delle norme a cui fanno riferimento, all’interno delle quali sono aggiunti, sottratti, sostituiti articoli, per altre decine (o centinaia) di pagine.

Il lettore medio non tremi: le sette norme non saranno oggetto di approfondimento su «Il Cittadino», che cortesemente accoglie le nostre riflessioni.

Riteniamo però che un impianto tanto complesso e soprattutto «extra ordem», cioè in deroga alle disposizioni vigenti, assunto con ordinanze di Protezione civile grazie a prorogate dichiarazioni di stato di emergenza, sia non solo fuori luogo, ma lesivo dei principi dell’autonomia locale.

Per esempio – come nota l’Asgi – viene «da domandarsi se le ordinanze di individuazione dei siti di accoglienza avrebbero passato il vaglio della giurisprudenza qualora i relativi provvedimenti fossero stati impugnati dagli enti locali».

Per accogliere chi, poi?

Quegli stessi “clandestini”, per altro rapidamente dispersi sul territorio nazionale, che si era dichiarato di avere respinto e giurato in futuro di mandare «föra da i […]»? (Sì, anche questa espressione è ormai un «luogo comune linguistico», ma rifiutiamo di riprodurla nella sua interezza).

A chi giova passare da un’emergenza all’altra? A qualcuno giova, è evidente. Per esempio – come hanno denunciato «Manifesto» e «Repubblica», rispettivamente il 19 e 22 marzo – alla ditta di Parma che ha costruito a Mineo il “Residence degli Aranci” (destinato ai soldati americani di stanza a Sigonella, che hanno rescisso il contratto con quattro anni di anticipo), ora trasformato in “Villaggio della Solidarietà”: grazie all’affitto milionario pagato dallo Stato, la ditta potrà ora ripagare il mutuo contratto con Intesa San Paolo.

Non basta: come pure ha denunciato il 14 aprile Daniela Di Capua, responsabile dello Sprar, Sistema di Protezione per Richiedenti Asilo e Rifugiati (nell’ambito del quale Lodi ospita un progetto territoriale), appaltare alla Protezione civile e alle forze dell’ordine la gestione dei richiedenti asilo «costa molto di più: i cosiddetti Cara (Centri Accoglienza Richiedenti Asilo, strutture provvisorie collettive) costano 70-80 euro pro capite, escluse le spese dei controlli di sicurezza, mentre lo SPRAR prevede una diaria di 35 euro al giorno».

Spendere più del doppio non lascia indifferenti, in particolare in tempi di crisi economica, per quanto per nostra parte siamo altrettanto colpiti dall’insensatezza di instaurare per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati un doppio sistema: quello Sprar, consolidato da dieci anni di esperienza e fondato sulla prospettiva dell’integrazione nelle comunità e nei territori, e quello della Protezione civile, ancora una volta basato sulla logica dell’emergenza (ed evocativo a livello di «luogo comune linguistico», di catastrofe imprevedibili).

Viviamo «giorni strani». Ci riferiamo non all’album dei Doors (o forse anche a quello: «Strange days have found us»), ma all’omelia dell’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi per la Domenica delle Palme: «Quelli che stiamo vivendo oggi sono giorni strani. I più dotti potrebbero dirli giorni paradossali. […] Perché tanti vivono arricchendosi sulle spalle dei paesi poveri, ma poi si rifiutano di accogliere coloro che fuggono dalla miseria e vengono da noi chiedendo di condividere un benessere costruito proprio sulla loro povertà?».

Laura Coci e Roberto Gualterotti

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