Mezzogiorno, federalismo senza unità

Nell’ambito della cosiddetta “questione meridionale”, l’idea federalista e la sua attuazione - che sembra esclusa da molto tempo dal dibattito pubblico - si scontra con la situazione di un Paese dove l’unità è lungi dall’essere stata mai realizzata. Questo era vero 150 anni fa e lo è tuttora. Il dibattito sull’unità d’Italia rimane ancora questo. Quale ruolo assegnare allo Stato nell’unificazione politica del Paese? Quale spazio può giocare in questa direzione la valorizzazione dell’autonomia politica regionale, a fronte di un quarantennio di esperienza fallimentare (se si fa eccezione per qualche limitata regione)? Quale impatto su questa realtà può avere la visione federalista? L’annunciata riforma del titolo V della Costituzione, può essere un’occasione seria per affrontarla? Il Risorgimento e l’unificazione politica del Paese hanno indubbiamente risolto problemi molto importanti, superando una frammentazione di Stati e di ‘staterelli’, nonché un significativo divario - culturale ed economico - che avrebbe escluso l’Italia dal consesso delle grandi potenze europee. Come ha ben sostenuto lo storico Gambino in un suo studio, quello che l’Unità d’Italia, nelle forme che sono state storicamente seguite, non poteva risolvere era il deficit conoscitivo, da parte della Casa regnante dei Savoia, circa le condizioni profondamente eterogenee del Paese, le quali si presentavano drammaticamente esasperate al Sud nei primi anni successivi all’unificazione. Questo dato è stato confermato dalle linee di condotta dell’entità statuale dei decenni successivi e la “questione meridionale”, per coloro che se ne sono occupati seriamente - da Fortunato a Salvemini, da Gramsci a Dorso, da Nitti a Saraceno - era e resta quella di riannodare un doloroso nodo storico, colmando un solco profondo che “la conquista delle due Sicilie” da parte della Casa Savoia aveva tracciato e che non si è mai rimarginato. Si trattava, infatti, di una unità del Paese nata in modo precario, in quanto fondata più sulla lungimiranza democratica, liberale e laica di minoranze illuminate, che avevano promosso e accompagnato il Risorgimento nei suoi passi, che sul diffuso consenso politico delle popolazioni e dei territori un tempo parti delle statualità poi confluite-annesse allo Stato. Un processo, quindi, incompiuto, tuttora aperto al divenire delle dinamiche economiche, culturali e politico-istituzionali.In questo contesto, si è inserita, nel 2001, la modifica degli articoli 114, 117, 118 e 119 della Costituzione: vennero diversamente ripartire le competenze fra Stato e Regioni, assegnando a queste ultime poteri esclusivi in settori determinanti, come la sanità, l’ambiente e i trasporti. Con l’articolo 119, in particolare, si attribuì agli enti locali autonomia finanziaria di entrata e di spesa. Fu introdotto il federalismo fiscale, che è divenuto strumento devastante per i conti dello Stato. Nell’ultimo decennio, secondo le stime della CGIA di Mestre, le Regioni italiane hanno speso 89 miliardi di euro in più, di cui oltre la metà sono stati assorbiti dalla sanità (49,1). A fronte di un aumento dell’inflazione pari al 23,9%, la spesa pubblica è cresciuta addirittura del 74,6%.

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