Messaggio a tutti i dittatori

Gli effetti dell’azione militare in applicazione della Risoluzione 1973 delle Nazioni Unite si fanno sentire con l’avanzata degli insorti che recuperano i pozzi petroliferi nelle zone di Brega e Ras Lanuf e annunciano la presa di Sirte. Fruttuosi i primi per il finanziamento della resistenza, che ha già annunciato di essere in grado di vendere petrolio ai clienti stranieri, e preziosa simbolicamente la seconda, città natale di Gheddafi. Ma mentre in Libia continuano a parlare le armi, la comunità internazionale si sta confrontando sulle possibili iniziative diplomatiche e 35 Paesi nei prossimi giorni s’incontreranno a Londra per discutere del futuro. Sul presente, più che sul futuro, In Italia il dibattito si è sviluppato in modo piuttosto fantasioso. Al di là di quanto raccontato nel nostro Paese, una guida Nato era auspicata da tutti per ragioni di efficienza – compresa la Francia – ma incontrava due difficoltà. La prima era il veto iniziale della Turchia, la seconda il rischio che l’iniziativa apparisse puramente occidentale. Numerosi incontri tra Usa, Francia e Gran Bretagna, con un interessante ruolo svolto da Libano e Qatar, hanno portato alla convocazione della riunione di Londra e al passaggio alla Nato del coordinamento delle operazioni annunciato dalla stessa Turchia. Un consistente successo intorno al quale sta maturando l’ipotesi di una iniziativa diplomatica di pace a guida Turchia e Unione Africana. In questi giorni occorre, però, non guardare solo alla Libia. La tensione in tutta l’area è palpabile. In Bahrein, dopo le violenze dei militari, il governo avvia una timida trattativa con l’opposizione, mentre si inseguono in Qatar notizie e smentite sulla cattura di una nave iraniana con i contestatori nell’arcipelago bahreinita, che geograficamente è un vero ponte di comunicazione tra Iran e Arabia e nelle intenzioni iraniane dovrebbe diventarlo anche politicamente. In Yemen il presidente Saleh, con le mani grondanti del sangue dei manifestanti, è vicino alla caduta e ci si chiede se chi gli succederà sarà in grado di contenere le pressioni di Al Qaeda che in questi anni, ostacolata dal leader yemenita, ha tentato di penetrare nel Paese. La situazione forse più delicata è quella siriana, in cui il giovane presidente Assad, successo dinasticamente pochi anni fa al padre, ha fatto sparare sulla folla ed è in seria difficoltà di fronte alle proteste popolari che ne smentiscono l’immagine pubblica di riformatore. Le tensioni in Siria si riversano in Libano, un Paese di fatto guidato per trenta anni da Damasco, e rischiano di essere destabilizzanti per il Medio Oriente e per qualunque piano di pace per la Palestina. Non per nulla, l’amministrazione Usa, pur riconoscendo il ruolo dialogante sul piano internazionale di Assad, ne ha censurato, con l’intervento più duro verso un governo della regione dall’inizio dell’anno, la scelta di usare la forza. In Egitto intanto il referendum sulla Costituzione ha creato le condizioni per convocare elezioni libere in settembre. Apparentemente è una buona notizia, di fatto i tempi sembrano essere troppo stretti per un esercizio di autentica democrazia. Non per nulla buona parte degli intellettuali laici egiziani hanno votato no al referendum. Il rischio è che siano pronti a settembre solo il partito di governo, vicino ai militari, e i Fratelli musulmani, da sempre organizzati. La fibrillazione, dunque, continua e da parte di molti la risoluzione Onu e la conseguente iniziativa alleata sono intesi come segnali contro l’impunità diretti agli altri governi della regione tentati, come Gheddafi, di spegnere le contestazioni con le armi. La più consapevole dell’importanza della dinamica regionale sembra essere la presidenza Usa, la più attiva sul piano diplomatico in questo periodo, molto al di là del fronte libico. L’attuale governo Usa peraltro mostra di essere consapevole della necessità di alimentare le relazioni internazionali e piantare semi di governance e pace fuori dai momenti di crisi. È quello che il presidente Obama ha fatto in questi giorni onorando l’impegno di una visita di cinque giorni in America Latina nonostante l’emergenza libica. In questo viaggio, il 24 marzo in Salvador, ha compiuto un gesto importante: ha acceso una candela sulla tomba di Oscar Romero. Un gesto fortemente voluto per onorare un martire e un profeta di pace. Un gesto significativo, compiuto da un uomo che in questi giorni ha dato ai suoi soldati l’ordine di sparare sia pure al servizio delle Nazioni Unite. Un gesto che con mitezza rende omaggio a un magistero troppo frettolosamente archiviato.

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