Ma la cultura è ancora una priorità?

“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”. Certo che i padri costituenti non sarebbero del tutto soddisfatti di come vanno le cose nel Belpaese quanto a beni culturali: l’ultimo venerdì nero (il 28 giugno) del nostro patrimonio culturale ha fatto tremare i polsi degli addetti ai lavori. Cinquecento turisti sono rimasti all’esterno degli scavi di Pompei per assemblea sindacale: era gente venuta dagli Usa come dall’Australia, ansiosa di ammirare tesori della storia e dell’arte di cui aveva sentito parlare sicuramente più di quanto lo siano i nostri concittadini, anche a causa di programmi scolastici che rischiano di cancellare quello che abbiamo di più caro nel nostro Paese, la storia antica. Non meglio è andata alla Pinacoteca Brera di Milano, agli Uffizi a Firenze, a svariati siti romani, dopo che il Colosseo aveva subito sorte analoga qualche settimana prima. Eppure noi dovremmo, se non navigare nell’oro, almeno avere la sicurezza che da quel versante arrivi un aiuto per la nostra economia. E invece no. Il Paese che ha incantato Goethe e Winckelmann, attirato Corot e Turner, è in picchiata per quello che riguarda la sua reputazione: se prima del 2012 eravamo decimi nella speciale classifica stilata dall’Agenzia di Marketing “FutureBrand”, ora siamo quindicesimi, dopo Singapore, Nuova Zelanda e Giappone, posti stupendi, per carità, che evidentemente, oltre ad essere appetibili, offrono più garanzie del nostro. Il problema è che i lavoratori dei nostri Beni non hanno tutti i torti, perché il personale è davvero ridotto, anche se il ministro Bray in un’intervista ha parlato dell’assunzione di 14 archeologi e 8 architetti, una goccia nel mare magnum delle necessità. Gli archeologi, in una realtà in cui ad ogni passo si potrebbe trovare una domus, una necropoli o una strada romana, sono 343, il che è davvero poco se vogliamo tenere aperti i siti e magari farci entrare anche i visitatori paganti. In congiunture economiche sfavorevoli come quella attuale, si tira subito fuori il problema delle priorità. Benissimo: i beni culturali sono una priorità, non per il solluchero estetico delle anime belle, ma per l’economia italiana. Sono un investimento dalle possibilità gigantesche, che però bisogna saper fare: non attiri visitatori se il “prodotto” è chiuso, cade a pezzi, come sta accadendo a Pompei, o è minacciato da lottizzazioni, come Villa Adriana: tutte e due i siti, unici al mondo, sono sotto osservazione da parte dell’Unesco, che stabilirà in un prossimo futuro se mantenerli o no nella sua prestigiosa lista di siti patrimonio dell’umanità. Insomma, senza nessun investimento, nessun guadagno. E invece ci tocca leggere che, solo per restare in Europa, nel 2011 la percentuale di spesa pubblica del Belpaese destinata alla cultura è stata dell’1,1 per cento: in grazia di questo dato siamo il fanalino di coda, dietro non solo l’Islanda, che “investe” il 7,4, ed è quella che fa di più, ma la Grecia (1,2) altro colosso dell’antichità che dovrebbe vivere solo di turismo, Cipro, la Polonia, la Slovenia, la Bulgaria. Senza contare che nel corso degli ultimi cinque anni il nostro bilancio ha subito una decurtazione di due terzi.Senza investimenti, lo ha insegnato l’America del New Deal, non se ne esce. Senza una diversa politica scolastica (soprattutto ripensando le possibilità di formazione di professionalità ad hoc come guide e operatori turistici specializzati dei Licei Artistici e dei Professionali per il Turismo) non è possibile pensare ad una ripartenza che finalmente metta in grado questo Paese di valorizzare le sue, mai parola fu più azzeccata, ricchezze.

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