Ma dov’è finita la politica?

Le tensioni sui debiti dei piccoli Paesi dell’Europa meridionale, Portogallo e Grecia, allargate a Spagna e Italia continuano, mentre si avvicina la il 2 agosto, quando nientemeno che gli Stati Uniti potrebbero fare default, se non si raggiungesse l’accordo, peraltro necessario, tra l’amministrazione Obama e la maggioranza repubblicana al Congresso. Anche il debito Usa è a rischio declassamento dalle maggiori agenzie di rating, che non a caso sono americane, così come ha fatto la cinese Dagong. In realtà sembra verificarsi quello che diversi osservatori avevano previsto, per cui si tenta di uscire da una crisi di necessaria ristrutturazione del sistema mondiale attraverso una rincorsa di bolle speculative. L’ennesimo venerdì nero della borsa italiana, gli attacchi speculativi che ne sono stati la causa, lo dimostrano con evidenza. Se la finanza globale, che insegue profitti a brevissimo, fa danni, serve una risposta della politica, che non può che essere globale, fatta da attori di peso di livello continentale. Ma si naviga a vista. Ricordiamo la questione posta da uno degli attori più muti della scena mondiale, la più che ottuagenaria regina Elisabetta II agli economisti, che non avevano lontanamente previsto la crisi. Lo stesso discorso vale per le cosiddette agenzie di rating, oggi all’onore delle cronache non solo finanziarie. Il punto è che probabilmente, dalla “crisi fiscale” dello stato interventista e allargato, che risale all’inizio degli anni Settanta, con la conseguente riscoperta del mercato, è progressivamente venuta meno la capacità di pilotaggio politico di un sistema mondiale che appare sempre più allargato e interconnesso. Questa incapacità rischia di generare costi spaventosi, e non solo per i più poveri. La speculazione sulle materie prime e sulle derrate alimentari infatti colpisce appunto i Paesi più popolati e più poveri, ma nei Paesi più ricchi si deteriora la situazione delle antiche classi medie. Le grandi agenzie, che negli ultimi vent’anni – lo spazio, cioè, dopo la fine del “secondo mondo”, quello del socialismo reale – hanno divulgato a livello planetario le ricette dell’economia globalizzata, non sono certamente in grado di assicurare questo pilotaggio politico. Non si pongono neppure il problema. La questione ritorna allora agli Stati, attori indeboliti, ma essenziali, sia pure in una dimensione che non può più essere quella novecentesca. Gli Stati Uniti hanno cercato in modo contraddittorio negli ultimi decenni di porsi il problema, anche attraverso guerre di nuova generazione. La Cina sta elaborando una sua linea, così come la antiche (Russia) o nuove potenze regionali (Brasile e India). L’Unione europea, che non ha saputo combinare il necessario allargamento con l’ancor più necessaria soggettività, sembra arrancare. Dalla crisi non si può uscire in maniera seria se questo equivoco non viene superato. L’Italia forse può contribuire a scioglierlo, quantomeno ha il dovere, come socio fondatore, di spendersi in ogni modo per questo obiettivo, imprescrittibile.

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