L’ipocrisia del federalismo fiscale

C’è da rimanere stupiti dello stupore che sta accogliendo la costatazione che negli ultimi 20 anni l’incremento delle imposte locali è stato, in valore assoluto di circa il 500%, contraddicendo l’assunto che stava alla base del cosiddetto federalismo fiscale, che tale incremento, conseguente alla riduzione dei trasferimenti statali, sarebbe stato del tutto compensato da una analoga riduzione della pressione fiscale a livello nazionale. C’era qualcuno che credeva veramente a tali affermazioni, non solo da parte di esponenti di Lega Nord e del Centro Destra, ma anche di autorevoli esponenti governativi del Centro Sinistra, nelle fasi in cui ha governato, di fronte ad una realtà in cui il livello del debito pubblico era ed è al livello che conosciamo, e non è diminuito, ma semmai aumentato, e quindi rendeva necessario trovare risorse attraverso principalmente la contrazione di quelle garantite agli Enti Locali (che sono i veri tartassati delle continue manovre degli ultimi anni). E per questi ultimi la necessità di garantire servizi adeguati e coprire i costi del personale avrebbe reso necessario realizzare un sistema impositivo locale che si sarebbe aggiunto e non sostituito a quello Statale. Ci vuole una buona dose di ipocrisia per sostenere una posizione del genere. Una ipocrisia che, lasciatemelo dire, copre anche la discussione in corso sulla richiesta avanzata di superare l’Imposta Comunale Unica sulla prima casa ,ma, nelle diverse accezioni, anche su altri immobili sottoposti a questa imposta (senza per altro dire come procedere alla copertura di questa scelta). Davvero siamo disposti a credere che lo slittamento, la rimodulazione, la soppressione dell’IMU non si porterà appresso un altro tipo di imposta (Tares) oppure una revisione dei valori catastali che comunque comporteranno un inasprimento della pressione fiscale? Sono convinto che nel nostro paese fino a che non si avrà il coraggio di affrontare alla radice il problema del debito pubblico (in valore assoluto e in termini di incidenza sul PIL) trovando un sistema che permetta di abbatterlo radicalmente attraverso una qualche forma di consolidamento o altro (e le possibilità ci sono, basta leggersi quelle indicate nel bel libro di Giorgio Ruffolo e di Stefano Sylos Labini “Il film della crisi. La mutazione del capitalismo”) non usciremo mai da questa situazione. Certo ci vuole un Governo dotato dell’autorevolezza e del consenso che oggi non c’è e che non sapremo mai quando ci potrà essere. Sono convinto che il problema di fondo, oggi, sia che nessuno ha il coraggio di guardare in faccia la crisi per quello che essa realmente è e di parlare chiaro alla gente dicendo cosa questo significa rispetto agli stili ed alle modalità di vita. La crisi che stiamo affrontando non è passeggera: sono ormai oltre sei anni che siamo dentro questa spirale e le previsioni che vengono fatte parlano di ripresa che è dietro l’angolo ma che non si materializza mai. Sulle ragioni si sono già spese tante parole: per il nostro paese, per l’Europa, per il mondo. Non se ne spendono per dire che questa situazione sarà destinata a trascinarsi ancora per diversi anni, almeno fino a quando non emergerà un qualcosa ( una nuova invenzione, un nuovo prodotto) che possa diventare trainante, oggi, a livello globale. E non è detto che Europa e Mondo e Occidente saranno gli attori protagonisti di questa nuova fase. Mi ricordo che non tanti anni fa si preconizzava un mondo libero dal lavoro per effetto dell’incidenza dell’informatica e delle nuove tecnologie sulle modalità di lavoro. Queste, si diceva, ci avrebbero permesso di godere tutti illimitatamente dei beni prodotti, perchè non c’erano limiti alla tecnologia. La previsione si è avverata: non c’è più lavoro, ma chi non c’è l’ha non ne gode illimitatamente, ma cade nella povertà. E l’aumento di ricchezza e di sfruttamento delle risorse della terra, che si è realizzato, da una parte si è diretto verso le nazioni di recente industrializzazione, dall’altra, nelle aree già sviluppate, non ha prodotto una liberazione generalizzata, ma un vantaggio a scapito di pochi. La concentrazione di ricchezza e di reddito denunciata da tutte le indagini statistiche ne è una prova. E’ arrivato il momento di non vendere più illusioni, ma partendo dalla cruda realtà cominciare a ricostruire un tessuto economico e sociale a cui tutti abbiano il diritto di partecipare. Per primo penso sia necessario ricostruire un tessuto industriale che è andato progressivamente distrutto nel nostro paese, sicuramente per effetto delle scelte connesse alla globalizzazione, che hanno spinto molte delle nostre imprese ad andare a produrre all’estero, ma anche per la responsabilità delle scelte politiche di quanti hanno illuso la gente che si potesse vivere di immaginario e di spettacolo. Ci vuole un progetto di politica industriale che riparta e faccia perno su un tessuto di piccole e medie imprese e di artigiani, che con difficoltà garantiscono ancora un quadro di tenuta produttivo al nostro paese. Il secondo è il tema del lavoro, la vera grande emergenza. Occorre trovare risorse non solo per ridurre il cuneo fiscale o per rifinanziare la cassa integrazione in deroga, ma anche per avviare dei programmi di lavoro concreto rivolto ai giovani: dare effettivamente una possibilità concreta di lavoro a quel 40% di giovani che non ne hanno. E’ un segnale importante la ripresa di interesse per il mondo dell’agricoltura, vuol dire che si comincia a capire che l’illusione della istruzione superiore che avrebbe garantito posti qualificati per tutti ha oramai mostrato la corda e che si vuole tornare a posti di lavoro in cui si può sudare ma che si sa, che poiché producono beni necessari, possono garantire anche una reale prospettiva. Il terzo mi piace ritornare all’incontro che si è tenuto venerdì 26 aprile a Sant’Angelo Lodigiano, nell’ambito degli Stati Generali del Lodigiano ed a cui ha partecipato il sociologo Giovanni Dotti che assieme ad una percezione molto chiara della situazione di crisi che stiamo attraversando, ha unito uno sforzo teso ad avanzare delle proposte, anche provocatorie per fare fronte a questa situazione. Parlando del sistema di protezione sociale del nostro paese che oramai è convinzione comune che vada profondamente rinnovato, ci ha invitato a non vedere il problema solo dal punto di vista quantitativo, delle risorse, ma anche dal punto di vista qualitativo: occorre rigenerare capacità di relazioni sociali fra gli individui orientando le persone a ritrovare la capacità di risolvere insieme i problemi ed a ricreare momenti di condivisione e di comunità, superando quella esasperazione individualistica cui ci hanno le facili illusioni indotte dallo sviluppo illimitato.

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