Le sgüiaröle, “amarcord on ice”

I curiosi di etimologia si chiederanno da dove venga la parola stravacà con cui abbiamo chiuso la puntata precedente. La questione è piuttosto controversa. Fino a ieri si pensava, pur col beneficio del dubbio, ad una origine tardo-latina: da extravacuare, cioè ‘svuotare’. Alcuni studi più recenti la ricondurrebbero invece al più ovvio vacca, con riferimento allo stato dell’animale che, in condizioni di malattia o disagio fisico, si rovescia per terra, in posizione scomposta. Origine suggerita anche dalla prima attestazione del termine, che parrebbe quella di Teofilo Folengo cui già abbiamo accennato, in cui si parla di ”pecore stravaccate che meriggiano” (nel latino “maccheronico” del Folengo: “stravaccatae pegorae marezant”).

Una terza ipotesi, molto ben documentata, collega invece stravacà a travaca, antico termine settentrionale - di cui troviamo ancora oggi traccia in molti dialetti - che indicava una ‘incastellatura’, cioè una struttura di sostegno, originariamente in travi di legno. L’instabilità propria di queste costruzioni, perlopiù provvisorie, avrebbe portato al senso di ‘rovesciarsi’, ‘precipitare a terra’. Della stessa famiglia sarebbe anche l’italiano trabiccolo.

Difficile pensare che la medesima parola sia nata in tempi, luoghi e modi diversi: quindi almeno in due ricerche su tre, pur in buona fede, si è dato libero sfogo alla fantasia e via libera alle stravacade (‘sciocchezze, spropositi’).

Se è arduo stabilire le origini di una parola, soprattutto quando scarsamente supportata da documentazione scritta, più semplice è risalire all’origine dei ‘capitomboli’ di cui abbiamo parlato la volta scorsa. Fare un rigulon o una tuma, una tumbula o un pal, può succedere a chiunque quando, camminando o correndo, strabüca (inciampa) su un suolo sconnesso o sgüia (scivola) su un terreno sdrucciolevole.

Strabücà nasce da e x-traboccare, come l’italiano straboccare, il quale ha però il senso principale di ‘straripare, tracimare, traboccare’. Tuttavia esiste un significato secondario, che è ‘perdere l’equilibrio’, già presente in testi del IV secolo, e di qui probabilmente è nato l’uso nostrano del termine.

Sinonimo di strabücà è scapüsà, da cui deriva l’italiano scappucciare, termine considerato un dialettismo settentrionale: lo troviamo infatti per la prima volta negli scritti del milanese fra Bonvesin de la Riva (XIII sec.), e successivamente anche nel Veneto. Sulla sua origine, per evitare di inciampare, gli esperti parlano di etimo incerto, anche se collegabile a cappuccio o cappello, nel senso di ‘errore, sciocchezza’ (come il nostro “fà una capelada”).

Il senso metaforico di ‘errore’ associato alle parole caduta e inciampo, si applica anche allo scivolone, che noi chiamiamo sgüion. Sgüià, ‘scivolare’, è un verbo di ampia diffusione nei dialetti del nord (milanese e pavese sghià, torinese sghiié, piacentino sgüië...). Qualcuno giura che sia arrivato in “discesa libera” dal norvegese ski (che si legge, e vuol dire, ‘sci’). A noi sembra più plausibile la derivazione da un antico sguillare, ‘sgusciare via’ ma anche ‘sdrucciolare’, che ancora oggi troviamo nei dialetti di Romagna, Marche, Toscana.

Se uno dei rischi che corriamo noi over60 è quello di sgüià sül gias nei mesi invernali, non possiamo però dimenticare che sessant’anni fa e oltre quello delle sgüiaröle era uno dei nostri giochi preferiti. Le piste di pattinaggio artificiali erano fantascienza (come lo era la disponibilità di denaro per questi passatempi che i nostri nipoti considerano ormai un diritto acquisito) e sgüià sulle superfici ghiacciate naturali di strade e piazze con slittini improvvisati (o, più spesso, senza) erano esercizi di destrezza e, come tutti i giochi di allora, scuola di fantasia e pratica di economia.

© RIPRODUZIONE RISERVATA