L’ANNIVERSARIO/1 - Due anni fa il disastro: Frecciarossa deragliato
nei campi di Livraga

Il primo incidente della storia del FR: due macchinisti morti, dieci passeggeri gravi

Il più grave incidente dell’Alta velocità ferroviaria in Italia è avvenuto nel Lodigiano, alle 5.30 del mattino del 6 febbraio 2020, quando il Frecciarossa 9595 Milano - Salerno partito alle 5.10 del mattino da Milano Centrale è deragliato a 298 chilometri orari in corrispondenza del Posto movimento Livraga. Che sembra una stazione ma non lo è: spersa nei campi, vicino al casello A1 di Ospedaletto, serve per il deposito di attrezzature per la manutenzione, per l’alimentazione elettrica, per ricoverare fuori linea treni in caso di avaria. E per questo è uno dei pochi punti dell’Alta velocità con scambi e binari morti.

Il treno, che aveva raggiunto la sua velocità massima (in realtà il convoglio può superare i 350 chilometri orari ma il Governo ha preferito limiti più conservativi sulle linee) si è spaccato in due proprio in corrispondenza di uno scambio. Il sofisticato sistema di segnalamento Ertms indicava, sia al treno sia alla centrale di controllo di Bologna, che lo scambio era dritto. Invece, secondo le indagini della Polfer. era deviato verso il fascio di binari morti. Una traiettoria curva che non si può percorrere a più di 60 chilometri all’ora.

La prima carrozza, che è anche motrice, aveva imboccato il binario morto, imprimendo al giunto di collegamento con il secondo vagone uno strappo così brusco da tranciare gli agganci. Ed è stata una fortuna. I macchinisti, che nulla potevano fare in quei due o tre secondi, soli nella carrozza di testa (che ha i posti più cari e quindi non aveva ancora passeggeri) sono andati incontro al loro destino, impattando prima contro un carrello e poi contro l’edificio in cemento armato delle apparecchiature Rfi. La motrice pesante decine di tonnellate si è ribaltata in avanti e per Mario Dicuonzo, 59 anni, e Giuseppe Cicciù, 51 anni, non c’è stato scampo. Uno di loro era stato ritrovato esanime a centinaia di metri dal treno, proiettato fuori dalla cabina.

Gli altri vagoni sono in parte deragliati ma sono rimasti in assetto, percorrendo per centinaia di metri la massicciata, con i freni azionati in automatico (una sicurezza intrinseca dei treni, in caso di sgancio, che risale agli albori delle ferrovie), e solo la seconda carrozza si è parzialmente inclinata.

I 28 passeggeri e i 3 lavoratori sopravvissuti al disastro si erano trovati al buio in uno scenario surreale, attaccati ai telefonini per dare l’allarme. In dieci avrebbero poi riportato prognosi superiori ai 40 giorni (lesioni gravi). La paura era anche quella di morire fulminati dai cavi a 15mila volt che penzolavano dai pali della catenaria divelti o di finire travolti da un altro treno, in mezzo a quei binari. Nel disastro, non c’è stata una strage. Se la motrice si fosse portata dietro tutto il resto del treno, ci sarebbero stati decine di morti.

Quelli che finora sono emersi dalle indagini sono una serie di errori umani, almeno tre (nella fabbricazione, nella verifica e nell’installazione di un attuatore dello scambio) ma è anche emerso un problema generale nel sistema Av (almeno in Italia) che non prevede un circuito separato di controllo della posizione degli scambi. Come se un’automobile da 200 all’ora non avvisasse il conducente che è rimasta una portiera chiusa male. Gli ingegneri dei trasporti sanno che sono gli incidenti a insegnare come migliorare la sicurezza. Ma tre sbagli uno dietro l’altro vanno oltre la fatalità.

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