«Lasciateci entrare: il 25 luglio manifestazione davanti ai Cie [Centri di Identificazione ed Espulsione per cittadini stranieri irregolari]». «Nei Cie sono finiti anche richiedenti asilo [in fuga dalla guerra civile in Libia]». «Cento detenuti morti in sei mesi [nel 2011]». Sono tra gli ultimi lanci del «Redattore sociale», l’agenzia giornalistica che quotidianamente, attraverso la rete, propone informazione qualificata sui temi del disagio e dell’impegno sociale. Azione meritoria: perché il «Redattore sociale» racconta un’altra Italia (un altro mondo), che stenta ad apparire sui media. Qual è il paese reale? Quello della crescita, della modernizzazione, del benessere, oppure quello dell’impoverimento diffuso, della disuguaglianza, dell’emarginazione sociale? L’Italia, una sua parte almeno, declina verso la fragilità e l’intolleranza, in un clima di crisi globale che rimanda all’affermazione dei totalitarismi nell’Europa degli anni Trenta. Il governo crea un’illusione di ricchezza (attraverso i media più fedeli), il ceto medio impoverisce (i suoi figli sono sacrificati a un futuro di mera sopravvivenza), la disparità dei redditi raggiunge livelli impensabili, in ragione della imposizione fiscale regressiva (minore è il reddito, maggiore è la tassazione) e del consumo di beni da parte di una nuova classe di privilegiati, alla quale si guarda con condiscendenza, o ammirazione «grazie all’effetto ottico provocato dalla ragnatela di illusioni economiche» (Loretta Napoleoni in Economia canaglia). In questo scenario, nel quale la fatica quotidiana di vivere è disprezzata, l’esclusione dal benessere è ricondotta al fallimento nella ricerca del successo, alla responsabilità individuale. Il rancore porta allora i nuovi poveri a cercare «un effimero risarcimento a danno degli ultimi», spinti sempre più ai margini da politiche di esclusione (Marco Revelli in Poveri, noi).
E gli ultimi sono migranti, rifugiati, detenuti. Sono gli esclusi dall’illusione del benessere, ma anche gli esclusi dal diritto alla libertà di movimento, alla salvezza, alla dignità. Esclusi dai diritti economici e, novità del nostro tempo, dai diritti civili, non per “colpa” della società (come si cantava alla fine degli anni Sessanta) ma per “colpa” loro: perché soggiornano senza permesso sul territorio nazionale, eppure vi lavorano; perché fuggono da una dittatura feroce, fino a pochi, pochissimi mesi or sono sostenuta dal nostro paese; perché agiscono comportamenti dichiarati illegali, per esempio il consumo di sostanze stupefacenti.
La reclusione sembra essere la sola risposta praticata da una politica che rifiuta di comprendere i mutamenti sociali planetari: la globalizzazione dell’economia, che comporta lo spostamento dei lavoratori verso i mercati più attraenti; le nuove guerre per l’accaparramento delle risorse, con ricadute devastanti sulle popolazioni civili; la diffusione del precariato, che favorisce il passaggio da comportamenti leciti a comportamenti criminali, dunque la costruzione di una «zona sociale carceraria» (Vincenzo Ruggiero in Il delitto, la legge, la pena).
È un paradosso: il numero dei reati, nel nostro paese e nel mondo occidentale, diminuisce (è lo stesso Ministero della Giustizia a dichiararlo), ma sale l’indice di carcerazione. Una carcerazione che va a colpire gli ultimi, ai quali l’illusoria realtà dei media mostra la ricchezza, l’opulenza, lo spreco, per poi avvertire: «Non è per voi: ne siete esclusi, vi basti il pochissimo, il niente che vi è dato».
Una carcerazione inumana, spesso fondata sull’illegittimità, per migranti, rifugiati, detenuti.
Per i migranti. Con Circolare 1305 del 1 aprile 2011, il Ministro dell’Interno ha vietato ai giornalisti l’ingresso sia nei Centri di accoglienza sia nei Centri di Identificazione ed Espulsione per migranti. Il provvedimento è dichiaratamente incostituzionale: la Federazione Nazionale della Stampa Italiana e l’Ordine Nazionale dei Giornalisti, nel giugno scorso, hanno richiesto al Ministro un incontro sul merito della circolare, che «limita il dovere di informare liberamente i cittadini, in ottemperanza all’articolo 21 della Costituzione», lasciando nell’invisibilità le violazioni dei diritti umani e civili sistematicamente compiute all’interno dei CIE.
Per i rifugiati. Gravi dubbi sono stati sollevati dall’ASGI – Associazione Studi Giuridici sull’Immigrazione – sulla legittimità dell’accordo concluso il 17 giugno 2011 tra Governo italiano e CNT – Comitato Nazionale di Transizione – libico, che prevede una clausola in base alla quale «le parti procederanno alla reciproca assistenza e cooperazione nella lotta all’immigrazione illegale, incluso il rimpatrio di immigrati in posizione irregolare». L’accordo viola il diritto di asilo costituzionale (articolo 10, comma 3) e il principio di non respingimento sancito dalla Convenzione di Ginevra (articolo 33, comma 1), ovvero «i più elementari diritti fondamentali della persona umana». Non basta: secondo UNHCR – Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati – migliaia di potenziali richiedenti asilo provenienti dalla Tripolitania sono stati respinti e lo sono ancora.
Per i detenuti. Nei primi sei mesi del 2011, ovvero in 183 giorni, hanno perso la vita 100 detenuti: 32 i suicidi, 23 i casi oggetto di inchiesta giudiziaria per accertare le cause della morte, 45 i deceduti (età media 35 anni) per «malori improvvisi» legati a disfunzioni cardiache, respiratorie e altro. Non è un caso che nell’ultimo decennio i minimi storici delle morti dietro le sbarre risalgano al 2006 e al 2007: «quando per effetto dell’indulto la popolazione detenuta era tornata nei limiti di capienza previsti per il sistema penitenziario» (Osservatorio permanente sulle morti in carcere). L’illegalità del sovraffollamento nelle prigioni italiane è cosa nota: è valsa al nostro paese una prima condanna per da parte della Corte UE per i diritti umani, nel luglio 2009, alla quale probabilmente ne seguiranno altre, poiché gli esposti presentati da associazioni di tutela o da singole persone detenute sono ormai oltre trecento (Antigone).
Scriveva Giovanni Verga nella Prefazione al romanzo I Malavoglia: «Il cammino fatale, incessante, spesso faticoso e febbrile che segue l’umanità per raggiungere la conquista del progresso, è grandioso nel suo risultato, visto nell’insieme, da lontano. […] Solo l’osservatore, travolto anch’esso dalla fiumana, guardandosi intorno, ha il diritto di interessarsi ai deboli che restano per via, ai fiacchi che si lasciano sorpassare dall’onda per finire più presto, ai vinti che levano le braccia disperate». Era il 1881: a distanza di centotrenta anni questa storia chiede ancora di essere raccontata.
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