La vera sfida si chiama occupazione

A mancare è il lavoro: in Italia e in buona parte d’Europa. Senza quello, discutere dei contratti di lavoro appare marginale rispetto al punto nodale: senza lavoro, non ci sono nemmeno assunzioni e contratti da applicare. Pensare che il problema sia meramente normativo (non si assume perché non si può licenziare; oppure più assunzioni per combattere il precariato) sposta l’attenzione laddove non dovrebbe stare.A lavorare in Italia sono poco più di 22 milioni di connazionali. Gli altri (poco meno di 40 milioni) passano il tempo a svezzarsi, studiare, governare la casa, lavoricchiare in nero, godersi la pensione. Ci sono almeno tre milioni di italiani che vorrebbero incrementare il numero dei 22 milioni “attivi”; altrettanti (soprattutto donne) che non ci pensano ormai più. Volendo evitare a tutti costi di affrontare la questione, ci si può incaponire per mesi o anni sull’art. 18 dello Statuto dei lavoratori (anno di nascita 1970) che tutela i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato – assunti in aziende con più di 15 impiegati – da licenziamenti indiscriminati, con l’obbligo del reintegro e non del solo risarcimento. Questione importante, per carità; ma è pura malafede matematica quella di sostenere che sia decisiva. Nel campo delle regole c’è sicuramente da fare. Ma se non si creano occasioni di occupazione, questa mancherà o sarà facilmente precarizzata. Banale, ma qui sta il punto.Basta guardare oltralpe, in Germania. Disoccupazione ai minimi, anzi c’è nuovamente bisogno di manodopera estera. Se fosse una questione di regole, basterebbe applicare quelle tedesche (magari con rigore teutonico) e pure qui sfioreremmo la piena occupazione. La differenza tra noi e loro è un’altra. Lì le aziende crescono, si moltiplicano, hanno ordini, fanno fatturati; qui al massimo si resiste. Guardatevi intorno e scoprirete molto made in Germany mescolato a moltissimo made in China e ad un po’ di made in Italy. Una costosa e vendutissima Audi porta con sé sofisticati impianti frenanti, centraline elettroniche varie, acciaio e leghe speciali, pneumatici, motori e trasmissioni integrali, sedi estere e servizi post-vendita. Un universo fatto di aziende tedesche, spesso multinazionali, all’avanguardia tecnologica, con molta innovazione e fabbriche mantenute sul territorio o solo in parte delocalizzate.Ne conseguono: assunzioni, buoni stipendi, diverse nuove occasioni per chi perde il lavoro.Siccome non ci si può inventare per decreto una Volkswagen che trascini l’economia di Campobasso, che si può fare, allora, per produrre più pane da spartire in Italia?Ci sono ricette valide, ma di basso impatto: il turismo è una nostra (non delocalizzabile) risorsa, ma a basso valore aggiunto; la qualità artigianale italiana è al top nel mondo, ma non saranno mille sartine in più a cambiare le statistiche. L’artigianato soffre di mancanza di manodopera e una revisione dei percorsi professionali sarebbe salutare, ma anche qui stiamo parlando di qualche decina di migliaia di posti, quando all’appello ne mancano da tre milioni in su. A mancare invero da troppo tempo in Italia è la cosiddetta “politica industriale”. C’è stata – magari all’italiana – fino ai primi anni Sessanta. C’è stata, ma tutta da dimenticare, quella successiva che trapiantò impianti petrolchimici e acciaierie nel Mezzogiorno, e di essa non è rimasto quasi niente. C’è stato quindi l’abbandono di quell’industria pesante o del futuro (chimica, automobili, informatica) che fa i numeri in altri Paesi. Quindi il nulla degli ultimi vent’anni, la mancanza di visione nascosta dietro il successo delle arrembanti piccole imprese esportatrici che facevano soldi con fantasia, tanto lavoro e l’aiuto delle periodiche svalutazioni della lira. Arrivato l’euro, la forza propulsiva s’è attenuata; arrivata la Cina, la forza concorrenziale si sta spegnendo. Ma l’Italia non è morta. Abbiamo cinquecento aziende di medie dimensioni che sono al top nel mondo o in Europa nei rispettivi settori. Nessuna di loro però con dimensioni tali da imporsi come multinazionali così da affiancare i colossi pubblici Eni ed Enel, che comunque hanno lavorato benissimo in questi anni. Sono aziende che soffrono di nanismo dimensionale: dobbiamo aiutarle a crescere, ad essere competitive in ogni mercato mondiale, a diventare grandi tenendo però ben salde radici (e siti produttivi) in Italia. Tutte cose fattibili, se si vuole.Poi bisogna assolutamente mettere ordine a casa nostra, se vogliamo che questa sia produttiva e accogliente. C’è molto da fare: nuove infrastrutture con un ottimo rapporto costi-benefici (l’alta velocità ferroviaria ad esempio è quasi tutta da ripensare), a cominciare dai porti e gli interporti; una legislazione degna di un Paese civile piuttosto che di un suk levantino, con una Giustizia rapida ed efficace; una bonifica delle aree malavitose, se vogliamo che qualcuno si azzardi a fare impresa laddove ora non c’è nemmeno lo Stato. E sì, pure un’intelligente rinfrescatina ai contratti di lavoro: qui giuslavoristi, politici e sindacati farebbero meglio a concentrarsi su validi strumenti di inclusione lavorativa (come ad esempio il part time) o a ripensare il rapporto scuola-lavoro, piuttosto che su balocchi ideologici o su boutade linguistiche senza costrutto.

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