La bocciatura? Va bene quando serve

Continua a tenere banco il problema delle bocciature considerate dal nostro ministro, nel corso di una recente intervista, come uno «strumento estremo». Un tema delicato che richiede un paziente confronto senza che questo possa essere inquinato da uno stato di emotività in cui qualcuno può cadere. Questo vale sia per i docenti che per i genitori portati, il più delle volte, a indicare gli insegnanti come gli unici responsabili dell’insuccesso scolastico e delle relative conseguenze. Una tesi un po’ troppo spinta che però ha trovato, negli esiti delle valutazioni Invalsi resi pubblici di recente sul sito del Miur, una sorta di grimaldello. La risposta sta nel decreto n°104 del 12 settembre 2013 dove si parla di corsi di aggiornamento obbligatori per quei docenti le cui scuole hanno ottenuto risultati sotto la media nazionale. La conclusione? Se i ragazzi ottengono scarsi risultati la colpa è degli insegnanti che pertanto vanno aggiornati. Da questa lettura se ne deduce che se la scuola non riesce a dare adeguate risposte formative, se la scuola non riesce a creare un clima adatto alla promozione della persona, se la scuola non riesce ad evitare le bocciature, la responsabilità ricade soprattutto sugli insegnanti. Personalmente ci andrei cauto. Il problema è fin troppo serio perché possa essere ridotto a semplicistiche e frettolose conclusioni. E’ un problema che prende tutti. L’alunno innanzi tutto in quanto direttamente coinvolto dalle conclusioni valutative degli insegnanti; poi i genitori soggetti a forti pressioni emotive tanto che raramente sono disposti ad accettare o a comprendere la decisione negativa del docente; infine i docenti visti più come detentori di un potere, espressione di una scuola non virtuosa che come professionisti chiamati al delicato compito di valutare meriti e ragioni di un impegno o di un disimpegno nello studio. Certo va tenuto nella debita considerazione il tipo di scuola e l’età dell’alunno. Un alunno delle elementari pone problemi diversi da uno delle medie o da uno studente delle superiori. Con questo voglio dire che parlare di bocciatura alle scuole elementari non è la stessa cosa che parlare di bocciatura negli istituti superiori. Se alle elementari deve essere un fatto eccezionale, alle medie un fatto misurato, così non può essere alle superiori. Sono realtà scolastiche totalmente differenti. A un percorso di formazione inserito in un ambito scolastico obbligatorio, infatti, si contrappone un percorso di formazione proprio di un ambito scolastico professionalizzante o propedeutico agli studi universitari. Variabili che se da una parte condizionano decisamente l’operato di un docente, dall’altra non sono quasi mai accettate dai genitori. E questo vuol dire che se un ragazzo è bocciato la colpa è sempre e comunque dell’insegnante chiamato a rispondere del suo operato anche rischiando la faccia durante gli «incontri ravvicinati di terzo tipo» richiesti per regolare i conti. Pazienza. Capitava anche al buon Socrate. A lui, ad esempio, piaceva tanto chiacchierare, cosa che invece, non piaceva ai suoi interlocutori. Anzi. Si racconta che «i suoi interlocutori per potersene liberare, lo prendevano a pugni e gli strappavano i capelli». Poveraccio. Ho ragione quando dico che è sempre meglio evitare di fare il filosofo. Non dico che il docente non abbia le sue responsabilità in quanto diretto artefice della promozione umana e scolastica di un alunno. Un docente dovrebbe muoversi su una efficace azione didattica basata su una forte motivazione formativa e su una convincente deontologia professionale. Il problema probabilmente va visto su un piano che non escluda alcuna opzione compresa la perdita di riconoscimento sociale della classe docente. Tutti si scoprono ottimi analisti, attenti pedagogisti, raffinati psicologi, grandi sindacalisti, valevoli giuristi. In questo clima è facile immaginare in quale girone infernale dantesco finiscono gli insegnanti. Il «fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza», sembra quasi che Dante l’abbia rivolto ai docenti invece che agli studenti. «Al Tar, al Tar» è, invece, il grido di battaglia di molti genitori. «Insegnanti ignoranti» è il minimo che si possa sentire in giro. Ora lasciando stare le invettive o le analisi da cortile della «Fattoria degli animali» di Orwell, rimane un fatto che comunque merita di essere approfondito. Serve o non serve bocciare? In fin dei conti quando il nostro ministro parla di bocciatura come un evento raro o quando ipotizza corsi di aggiornamento obbligatori per quei docenti le cui scuole hanno ottenuto deludenti risultati alle prove Invalsi, può tutto questo essere considerato come un viatico anti dispersione? E se parlassimo di bocciatura educativa resa necessaria da un cammino formativo pieno di indifferenza alle diverse sollecitazioni, frutto esclusivo di un continuo disimpegno nello studio suffragato dalla convinzione che tanto alla fine dell’anno la promozione arriva comunque? Di esempi negativi la scuola è piena. Come si fa giustificare una promozione “offerta” su un piatto d’argento senza aver richiesto un minimo di impegno e di sacrificio necessari a dare un significato al risultato ottenuto? Personalmente ritengo ragionevole la posizione del ministro quando punta su un concetto di bocciatura vista come estrema ratio, ma sono altrettanto convinto che la causa di una bocciatura, intesa come un normale insuccesso che può capitare a chiunque nell’arco della vita, non può e non deve essere attribuita al fallimento didattico di un insegnante. Bisogna vivere e conoscere bene l’ambiente scuola. Solo in questa condizione si può comprendere come la bocciatura non è mai un «folle gesto valutativo» di un insegnante in crisi esistenziale, né di un insegnante che reagisce con atti di ritorsione alle asfissianti pressioni di insopportabili genitori. Si boccia semplicemente perché un ragazzo non ha studiato, perché ha preferito dedicarsi ad altro, perché ha scoperto altri interessi che con la scuola hanno poco o niente a che fare, perché ha trovato inconcludenti gli inviti dei propri insegnanti o forse perché innamorato con la testa fra e nuvole. Ma poi in fin dei conti non dobbiamo mandare avanti chi studia, «i capaci e i meritevoli anche se privi di mezzi»?

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