Dopo esserci dilungati sull’importanza dell’”avere” nel dialetto del “lodigiano stretto di mano”, ci sembra doveroso dedicare una puntata anche all’”essere”. Innanzitutto ricordando le due forme equivalenti in cui si presenta, es e ves, dove la differenza è giustificata da ragioni di eufonia (el gh’à da ves suona meglio di el gh’à da es, come “a vegh reson” è meglio di “a avegh reson”). E poi aggiungendo un paio di espressioni linguisticamente interessanti. Abbiamo ricordato, la scorsa puntata, la locuzione “avegh di guai” (‘essere in difficoltà’): e se invece siamo totalmente incapaci di fare qualcosa? Un sedicente “lodigiano” che dicesse “son no capas”, verrebbe subito smascherato ed esposto al pubblico ludibrio in piasa del Dom. Il lodigiano autentico, padrone della lingua degli avi, sa invece che esistono diversi modi di dichiararsi incapaci o impossibilitati a fare qualcosa. Uno di questi è “ s on bon no ” (‘non sono buono’). Se passeggiando sulle rive dell’Adda vediamo qualcuno trascinato dalla corrente che si sbraccia gridando “ son bon no de nudà ”, una volta accertato che si tratta di un vero lodigiano - e quindi che ci sta effettivamente dicendo ‘non so nuotare’ - è bene che ci affrettiamo a portargli soccorso. L’espressione “es bon de” (e l’opposto “es bon no de”) - non è tuttavia esclusiva delle terre (e delle acque) abduane; è infatti ampiamente diffusa nei dialetti di tutta la penisola, usata da fior di scrittori, e riportata in ogni buon dizionario di italiano (ad es. “è un buono a nulla”). Esprime una capacità (o incapacità) costante, il “saper fare” o meno una certa cosa, come appunto nudà in Ada o sifulà l’Aida, giügà ala lipa o saltà i fosi per el lungh. Se si fosse disimparato a farlo diremmo invece: “son bon pü”.Quando, al contrario, si tratta di una situazione contingente usiamo un’espressione un po’ più enigmatica: son in cas (no), cioè ‘(non) ce la faccio, (non) riesco’. Se il nostro vicino di casa che alcune settimane fa ci diceva “gh’ò di guai a caminà”, oggi ci confessa amaramente “incö son in cas no de stà in pe”, dovremmo davvero cominciare a preoccuparci per la sua salute. Presente in diversi dialetti lombardi, l’espressione “(non) essere in caso di” è tuttavia registrata anche da alcuni - pochi e ponderosi - moderni vocabolari di italiano (oltre al classico dizionario ottocentesco del Tommaseo). La troviamo inoltre nelle opere di grandi scrittori come Goldoni, Parini, Monti e, buon ultimo, Alessandro Manzoni (“...taluno già agonizzante e non più in caso di ricevere alimento, riceveva gli ultimi soccorsi e le consolazioni della religione.” I Promessi Sposi, cap. XVIII). L’area di provenienza degli autori citati indurrebbe a considerare questa locuzione ristretta all’Italia settentrionale. Un viaggio “virtuale” oltreconfine ci ha però riservato alcune sorprese. Nel cantone di Grigioni - dove si parla il romancio, quarta lingua della Svizzera - abbiamo scoperto un “esser en cas da...” equivalente in forma e sostanza al nostro “es in cas de...”. E un bel toch püsé in là, eccolo riapparire come “être en cas de...” nel dialetto della Vandea, regione francese affacciata sull’Atlantico. Mentre la zona dei Grigioni può essere linguisticamente associata all’area lombarda, lo stesso non possiamo dire della Vandea: trattandosi però in tutti i casi di lingue romanze, non si può sbagliare ritenendolo un‘eredità comune latina, rifiutata dalle lingue nazionali ma rimasta in uso in alcune parlate locali.
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