Immigrati, nuova forma di schiavitù

Mio nonno paterno era emigrato, giovanissimo, negli U.S.A. per cercare fortuna. Trovò lavoro nello Stato della Virginia, in una società addetta alla costruzione di strade ferrate. La manovalanza, costituita da braccianti e contadini di varia provenienza e da nativi americani, era particolarmente turbolenta, risse e litigi erano all’ordine del giorno, ma la paga era buona e consentiva di mettere da parte qualche soldo. Quando, infine, la dea bendata gli si presentò con la seducente prospettiva di aprire un piccolo emporio commerciale, piantò tutto e rientrò alla base. Mi ripeteva spesso che non potevo immaginare quanto lunga e snervante fosse stata la trafila amministrativa e burocratica per ottenere il tanto sospirato espatrio: certificati, nulla-osta, documenti vari, visite mediche, ecc. Questi lontani ricordi mi affiorano alla mente, quando sento persone qualificate affermare che la nostra emigrazione in America tra fine Ottocento e primi decenni del Novecento e l’attuale immigrazione dal Terzo Mondo sono sostanzialmente la stessa cosa. Non è vero. Il punto fondamentale è che i nostri erano emigranti regolari con tanto di permesso e carte bollate, mentre l’attuale immigrazione avviene nella clandestinità e spesso è conseguenza diretta della fame, delle guerre e delle persecuzioni. Un’altra differenza, di importanza capitale, sta nel fatto che l’emigrazione dei nostri progenitori era diretta verso un Paese sottopopolato, dotato di immense risorse agricole e naturali, di enormi potenzialità industriali e con un’economia in fase esplosiva, mentre oggi l’immigrazione verso l’Italia riguarda un Paese di antica industrializzazione, densamente abitato e con un’economia dissestata, e pertanto dotato di limitate capacità di garantire lavoro e integrazione sociale. Non bisogna infine trascurare che gli attuali flussi migratori verso l’Italia non sono regolati dall’autorità dello Stato e neppure dalla pletora di leggi destinate a restare carta straccia, ma dalle organizzazioni mafiose, che dal traffico di merce umana ricavano lauti profitti. L’America era un esempio virtuoso di pianificazione e organizzazione. Il nostro Paese, invece, si limita a gestire l’emergenza nell’affannosa ricerca di soluzioni provvisorie. Se l’Italia vuole gli immigrati, deve a tutti garantire un’occupazione nel rispetto delle leggi. Se non li vuole, deve dichiararlo con fermezza e autorità, invece di accoglierli per poi rinchiuderli in centri dalle molte sigle che hanno tutta l’aria di essere delle carceri. Le scene infernali che si vivono in questi giorni a Lampedusa, con barconi stracarichi di un’umanità disperata, sono il segnale d’allarme che fame e sottosviluppo dilagano, si sono rotti antichi equilibri e una sorta di nemesi storica spinge immense moltitudini nelle sedi dell’opulenza. Abbiamo depredato questi popoli sfortunati delle risorse naturali, delle materie prime e anche della terra coltivabile, se è vero che da qualche anno società private, multinazionali e potenti Stati comprano sconfinati territori agricoli in aree povere e marginali e ne scacciano i contadini per attuare piani di agricoltura industriale o per produrre i famigerati biocombustibili. E questo accade mentre la crisi economica e finanziaria spinge il nostro Paese a lesinare gli aiuti ai Paesi in via di sviluppo. Allora, i poveri invadono le nostre terre per riappropriarsi della vita che in passato è stata loro negata. Per cambiare decisamente rotta in fatto di immigrazione, la prima cosa da fare è smetterla una buona volta con le politiche di stampo coloniale e neocoloniale, sempre identiche da secoli, e con il sostegno, palese od occulto che sia, ai regimi corrotti e screditati. E poi bisogna lavorare assiduamente per riconvertire la politica e la diplomazia alla cooperazione e allo sviluppo, in accordo con i Paesi di provenienza e in condizioni paritarie. Se le economie deboli decollano, i giovani non avranno più alcuna convenienza a emigrare per cercare un lavoro che può benissimo essere offerto dalle istituzioni e dalle imprese locali. Se, invece, il Terzo Mondo cade preda di violenza, disordine e instabilità, c’è il rischio che l’immigrazione diventi una nuova forma di schiavismo e che l’Occidente, prima o poi, ne resti travolto.

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