Belli i tempi in cui nel lodigiano si vedevano «larghissimi campi e prati per nodrigare gli armenti, dei quali se ne trae tanto cacio, quanto in nessun altro luogo d’Italia». Oggi la situazione è assai meno bucolica di quella descritta cinque secoli orsono da fra Leandro Alberti: i larghissimi campi ci sono ancora, gli armenti pure, ma di cacio poco, anzi, pochissimo. Solo il 12,3 per cento del latte prodotto dai 333 allevamenti di vacche presenti sul territorio viene trasformato in loco, il resto viene venduto fuori provincia per il consumo o la trasformazione in formaggio lontano dal luogo di produzione.
Lo conferma l’Indagine sugli aspetti strutturali e sulle dinamiche produttive del comparto agroalimentare recentemente pubblicata da Provincia, Camera di commercio e Parco tecnologico padano, all’interno della quale è presente una sezione dedicata alla filiera lattierocasearia. L’aspetto più rilevante fra quelli evidenziati dall’indagine riguarda proprio la distribuzione del latte: in tutto i “primi acquirenti” – ovvero le aziende che ricevono e lavorano l’oro bianco prodotto dalle stalle lodigiane – sono ventotto, alcuni dei quali società cooperative o consorzi di produttori. Spettano a questi ultimi le quote maggiori: le cooperative Santangiolina e Laudense, da sole, gestiscono quasi il 41 per cento del latte lodigiano, cui si aggiungono gli oltre 46 mila quintali lavorati annualmente dal Consorzio produttori latte del lodigiano. Ma nonostante queste compagini associative abbiano sede in provincia, le loro funzioni si esauriscono spesso nello smistamento del latte e nel suo conferimento presso impianti di lavorazione che non appartengono ai soci e che si collocano fuori dai confini provinciali (cosa che avviene anche per altre cooperative che raccolgono il latte nostrano, come il Centro raccolta Latte di Alessandria, la Coop Latte Abbiatense di Albairate, la Latte Melzese e la Latte Padano di Treviglio). Dei 333 allevamenti, 169 conferiscono il loro prodotto alle cooperative e 69 a consorzi di produzione, che dovrebbero svolgere un analoga funzione di tutela degli interessi dei soci. Solo 95 hanno un rapporto diretto con le industrie di trasformazione. Circostanza che restringe a cinque misere unità la rosa dei primi acquirenti autenticamente lodigiani (l’industria casearia Raimondi di Villanova, la ditta Angelo Croce di Casalpusterlengo e i caseifici Zucchelli di Orio Litta, Dedè di Borghetto e Mor Stabilini di Crespiatica), un numero davvero esiguo se paragonato ai quattrocentocinquanta “casoni” aziendali censiti nel 1883, molti dei quali interni alle cascine in cui si allevavano le vacche.
Oggi non è più così: in poco più di un secolo l’allevamento e la trasformazione sono diventati due ambiti produttivi nettamente separati e le 20.000 micro imprese che costituivano l’ossatura del comparto lattiero ottocentesco si sono ridotte oggi a 330, comunque in grado di ospitare un numero di vacche da latte di poco inferiore alle 49 mila unità (nel 1883 erano 34 mila) e di produrre annualmente 4,3 milioni di quintali di latte (oltre il 4% della produzione nazionale), per una capacità produttiva media annuale per azienda che si aggira sui 13mila quintali. Nella classifica dei comuni lodigiani più lattiferi, al primo posto c’è Bertonico, dove sono presenti ben dieci allevamenti, seguito da Turano, Corte Palasio e Mulazzano.
Un fiume bianco che nasce nelle stalle lodigiane ma che sfocia altrove - in caseifici che hanno sede nelle province di Milano (52,4 per cento), Cremona (2,2 per cento) e Bergamo (0,2 per cento), o addirittura fuori regione (17,3 per cento) - salvo poi ritornare in provincia trasformato nei prodotti caseari che si trovano al supermercato. Tra i primi acquirenti figurano molti grandi marchi: la Latteria Soresina (che ha da poco assorbito il Consorzio produttori latte di Milano, un altro affezionate cliente degli allevatori lodigiani) l’Italatte di Melzo (una società del gruppo Lactalis, il colosso del latte francese), il gruppo Granarolo attraverso la holdinh Granlatte, la Parmalat, l’alimentare Certosa, la Igor di Novara, specializzata in gorgonzola al pari del ceaseificio Gelmini di Besate, la Padania alimenti, leader nazionale nella produzione di panna fresca. Scorrendo le ragioni sociali dei i primi acquirenti, ci si imbatte anche in qualche sorpresa: come quello di un grana padano che rende onore nel nome al territorio da cui proviene la materia prima con cui è realizzato – il Lodigiano Bella Lodi – che viene però prodotto dai fratelli Pozzali a Casaletto Ceredano, in provincia di Cremona. Come in provincia di Cremona, a pandino, ha sede l’Antica Latteria Agricola. Del resto l’elenco dei caseifici che, da altre province, attingono al patrimonio lodigiano di “oro bianco”. Per lo più hanno sede nel Piacentino e producono per la maggior parte grana padano e parmigiano reggiano, com’è il caso di Lattegra Industra Casearia di Gragnano Trebbiense, del caseificio Colla di Cadeo, della Valcolatte di Pontenure e del Consorzio Agrilatte, che ha sede nel capoluogo oltrepadano. Ma una frazione di latte lodigiano finisce anche nella Bergamasca, al caseificio Ruggero Villa di Fara di Gera d’Adda.
Una molteplicità di destinazioni che, fatta salva la qualità del prodotto dimostrano chiaramente, come rilevano gli stessi autori dell’indagine, «quanto risulti precaria e irta di ostacoli la strada che conduce alla costruzione e al consolidamento di un’identità e di una riconoscibilità pubblica alla produzione agroalimentare lodigiana».
© RIPRODUZIONE RISERVATA