Il primo fondamento di ogni civiltà

Egregio direttore del «Cittadino», abito a Melegnano e sono un esule. Ho pensato di inviarle, in occasione del Giorno del Ricordo, un mio contributo, nella speranza di vederlo pubblicato sul giornale che dirige. C’è stato un periodo storico in Italia, che va dal 1943 al ’47, di guerra civile. Quello che è successo sul confine orientale, nella Venezia Giulia, è frutto di uno stesso spirito, di uno stesso momento, di uno stesso disegno. Ecco perché è sceso su questo periodo il silenzio dei vivi, che è più tragico del silenzio dei morti, perché è il silenzio del’ipocrisia. Fino a 20 anni fa gli studenti venivano a conoscenza del periodo della Resistenza attraverso i libri di storia e tramite le rievocazioni per il 25 aprile. Allora non conoscevano quello che oggi la pubblicazione di nuovi libri rivela, cioè che durante la Resistenza, tre furono le guerre combattute: una guerra patriottica (contro gli occupanti tedeschi), una guerra civile (contro gli italiani di Salò), una guerra di classe (contro la struttura capitalistica del Paese, preesistente al fascismo e da quest’ultimo rafforzata). Ma né i libri di testo, né le testimonianze di coloro che vissero quel momento storico, misero adeguatamente in luce il fatto che dalla fine del ‘43 al ’47 una parte di coloro che avevano partecipato alla Resistenza ed erano rimasti nella Resistenza insieme ai partigiani di Tito, continuarono, o seguirono, il progetto rivoluzionario del comunismo internazionale, che tentava di occupare il più vasto territorio possibile. Era un progetto distante dalle dimensioni storico-civile dell’Italia, non è più presente nelle nostre coscienze, ma dobbiamo riconoscere che c’è stato ed è stato similare dalla Liguria all’Istria, passando per tutte le regioni del Nord, con uno strascico di violenze di cui ancora non è stato ricomposto l’intero quadro. Quindi non solamente Resistenza, non solamente mito della Resistenza nel senso di lotta di liberazione dall’occupante tedesco, ma anche progetto politico e progetto rivoluzionario attuato nei modi più barbari. Su questi argomenti, su questi orrori, si sapeva quasi tutto: arresti, deportazioni, luoghi di tortura. C’erano infatti molte pubblicazioni e la stampa nazionale fin dal ’45, aveva dato grande rilievo agli avvenimenti sul confine orientale. C’è stata una deliberata e concertata rimozione di quei fatti dalle coscienze del popolo italiano attraverso una colpevole ignoranza. Dopo oltre sessant’anni molte vicende sono state riesumate e chiarite grazie all’iniziativa di uomini politici, di storici e di saggisti che hanno riportato a galla la dolorosa vicenda di tanti italiani sterminati o costretti all’esilio. Una presa di coscienza si è diffusa in una parte illuminata degli esponenti della politica italiana. Le Associazioni degli esuli, sorte fin dal momento dell’esodo, hanno sempre coraggiosamente levato la loro voce per richiamare l’attenzione su questa drammatica pagina di storia: l’Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, i Liberi Comuni in esilio di Fiume, Pola e Zara, la Federazione delle associazioni degli esuli istriani, fiumani e dalmati, e altre associazioni che difendono e diffondono la cultura, le tradizioni, la storia delle terre degli esuli. Tuttavia permane ancora in alcuni ambienti intellettuali un’ostinata resistenza ad accettare il ricordo degli italiani vittime della pulizia etnica e politica messa in atto dai partigiani comunisti di Tito dopo l’8 settembre. Mi stupisce che per ignoranza dei fatti in questione, ma spesso per pregiudizio ideologico, l’argomento “foibe, esodo, confine orientale” non viene affrontato neanche dai docenti di Storia e Filosofia o viene risolto in modo marginale, se non addirittura allontanato con sdegno. Stupisce anche di dover assistere ad uso strumentale della memoria, in cui ai fatti viene anteposta l’interpretazione dei fatti, secondo criteri che nulla hanno a che fare con l’accertamento della verità e a cui nulla importa del carico di dolore e di emarginazione che una parte cospicua del popolo italiano ha dovuto subire, sebbene innocente. Nella vita di un popolo possono esserci momenti oscuri, tragici, anche sanguinosi, ma il dovere di una nazione, il dovere di una comunità, è quello di non dimenticare mai. Non dimenticare mai significa estirpare i semi del’odio. Al contrario, far finta che niente sia successo, o deformare la realtà dei fatti, significa lasciare quei semi sotto terra in attesa che germoglino i loro frutti nefasti. Una nazione si riconosce nell’unità di memorie, cioè nel sentimento di una tradizione comune, che ha dato vita ad una civiltà unitaria. Dobbiamo pertanto riconoscere che ci sono tra noi italiani, che sono italiani due volte: per nascita e per scelta. Sono gli esuli, gli unici testimoni del sacrificio compiuto da Istriani, Fiumani e Dalmati per rimanere fedeli alla Patria, fedeli alle proprie origini italiane. Oggi, molte città, che li accolsero dalle loro martoriate terre, hanno elevato un monumento ai martiri delle foibe, supremo monito per mantenere viva e luminosa la loro presenza nella storia, ristabilendo così un ideale colloquio fra i vivi e gli estinti, espressione di quella “corrispondenza d’amorosi sensi” – come scrive Foscolo nei Sepolcri – che è la più divina dote dell’uomo, il vincolo che tiene unita la società e il fondamento primo di ogni civiltà.

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