Il bimbo e l’acqua sporca

Un detto popolare ammonisce di non gettare via il bimbo con l’acqua sporca. Perfetto per le nuove norme predisposte dal governo Monti sul fronte della lotta alla precarietà. Perché questa è un’anomalia, anzi un’ingiustizia che va sanata. Ma non a scapito di una flessibilità che ha saputo dare molti buoni frutti in questo decennio. Tanto è passato, infatti, dall’approvazione della cosiddetta “legge Biagi” (dal nome del giuslavorista che ne fu tra gli estensori e che pagò con la vita quest’azione riformista, proprio dieci anni fa) che introdusse una serie di rapporti lavorativi improntati appunto sul concetto di flessibilità. Prima di allora, c’era una forbice larga tra il contratto di lavoro a tempo indeterminato e le cosiddette “collaborazioni”.

La flessibilità, dunque, cercò di colmare il gap, dando più regole a chi il contratto non l’aveva, e nel frattempo permettendo una serie di rapporti lavorativi intermedi che tra l’altro venissero pure incontro alle esigenze delle aziende di figure particolari.

Purtroppo, c’è stato un abuso notevole da parte delle aziende stesse, e una stortura sostanziale del concetto di flessibilità che ha generato una grande precarietà lavorativa e, in fin dei conti, sociale. Centinaia di migliaia di giovani si sono trovati così in un limbo che raramente sfocia nel paradiso dell’assunzione. In più – stortura tutta italiana – la rinuncia a certi diritti dei contrattualizzati non è stata ripagata da maggiori retribuzioni.

Anzi, il lavoratore precario italiano si trova nella pessima condizione di non avere in capo a sé alcun diritto, e in più è quasi sempre sottopagato.

Con l’esplosione di contraddizioni pesanti tra i lavoratori stessi: c’è chi gode di una sostanziale illicenziabilità (vedi art. 18) e chi può essere mandato a casa in due minuti, senza spiegazioni, senza risarcimenti.

Non a caso, nella prima parte della crisi economica che ci attanaglia da ormai quattro anni, i primi a pagare il conto sono stati proprio i lavoratori “flessibili”: i primi a essere espulsi dalle aziende, gli unici a non avere alcuna forma di sostegno al reddito.

La riforma del lavoro targata Monti-Fornero sembra dare una maggiore equità al mondo del lavoro.

Sul fronte appunto della precarietà, molte infatti sono le novità.

Si limita l’utilizzo a tempo indefinito dei contratti a tempo determinato, resi poi più costosi per l’azienda: non più di 36 mesi, con maggiori intervalli di tempo tra un contratto all’altro (per evitare che il limite temporale sia facilmente aggirato, come accade oggi).

Se si prosegue, il contratto diviene a tempo indeterminato: se il giudice ravvisa situazioni di illegittimità, scatterà la conversione in contratto a tempo indeterminato e il risarcimento tra 2,5 e 12 mensilità.

L’apprendistato diviene l’anticamera generale dell’assunzione, anche qui con limiti precisi. Il lavoro a progetto dovrà veramente essere a progetto e non un lavoro dipendente mascherato; se viene ravvisato come tale, lo diventa ope legis.

Stop alle clausole contrattuali di recesso del committente prima della scadenza del termine o per completamento del progetto.

Infine, giro di vite sulle collaborazioni con possessori di partita Iva, altro strumento dietro al quale si nasconde spesso vero lavoro dipendente non trattato come tale. Se il rapporto dura più di sei mesi l’anno, oppure se il collaboratore ne ricava più del 75% del proprio reddito usando una postazione di lavoro all’interno dell’azienda, la collaborazione si trasforma in assunzione.

Insomma una bella stretta agli abusi. Nella realtà, però, si rischia un effetto completamente indesiderato. Se la flessibilità, da troppo larga diventa troppo stretta, nella realtà obbligherà molte aziende a rinunciarvi. Tantissimi datori di lavoro hanno bisogno di collaborazioni; pochissimi possono permettersi il rischio di vederle trasformate in assunzioni immediate.

È bello che la legge preveda in definitiva il contratto a tempo indeterminato (nuovamente) come il punto d’arrivo per un lavoratore, pur diminuendo la sua efficacia in uscita.

Ma le assunzioni si fanno quando il ciclo economico lo permette, anche perché il costo del lavoro italiano è veramente alto. Qui il grande pericolo è quello di vedere diminuire molti rapporti precar-flessibili (comunque occasioni di lavoro e di reddito) in cambio di poche assunzioni. Ci sarebbe più equità, ma più disoccupazione.

Situazione per nulla positiva, soprattutto per i giovani.

Si spera, dunque, che la discussione parlamentare cui andrà soggetto il disegno di legge licenziato dal governo, abbia l’accortezza – tramite opportune correzioni – sia di tutelare i lavoratori dagli abusi che innescherebbe il licenziamento per motivi economici (ora generalizzato a tutti), sia di permettere ancora quella sana flessibilità di cui l’economia e l’occupazione di oggi hanno estremo bisogno. Appunto il bimbo da separare dall’acqua sporca della precarietà.

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