I giovani laureati? All’estero

Un milione e mezzo di italiani tra i 20 e i 40 anni vive al di fuori dei confini nazionali: l’equivalente dei giovani del Lazio. Secondo l’Istat, nel 2008 oltre 6.500 laureati sono fuggiti all’estero, pari al totale dei “dottori” (laurea specialistica) sfornati ogni anno dalla più grande università italiana: “La Sapienza” di Roma.Le mete che attraggono di più sono: Gran Bretagna (13,5%); Germania (11,4%); Svizzera (9,6%); Francia (9%); Stati Uniti (7,9%); Spagna (6,1%). Ma i “giovani in fuga” vanno anche in Cina, Brasile, Emirati Arabi, Australia, facendo registrare presenze in oltre 150 Paesi. A fornire questi dati è stato Alessandro Rosina, docente di demografia all’Università Cattolica di Milano, tra i relatori del V Festival internazionale del Giornalismo, svoltosi nei giorni scorsi a Perugia. Rosina ha partecipato alla sessione organizzata dal Forum nazionale dei giovani, sul tema: “Antidoti alla fuga: i giovani italiani e la scelta di restare”. La libertà di movimento senza confini - sostiene Alessandro Rosina - è diventata oramai un elemento che fa parte del dna delle nuove generazioni. La mobilità è da considerarsi positiva, perché consente un’allocazione ottimale delle risorse umane: chi frequenta l’università sotto casa e cerca lavoro senza spostarsi limita in partenza le possibilità di veder riconosciuti i propri talenti e di trovare adeguati strumenti per moltiplicarli. Questa però è solo una faccia della medaglia dell’espatrio dei lavoratori e dei cervelli italiani. L’altra faccia è rappresentata dal fatto che molti giovani si sentono costretti ad andarsene perché il proprio Paese riconosce meno le loro capacità o se le riconosce appare meno in grado, rispetto ad altri, di valorizzarle: un disincentivo alla permanenza, questo, dovuto agli squilibri generazionali e alla mancanza di opportunità per i giovani.Tra questi “squilibri” che spingono i giovani italiani alla “fuga” esiste, in primo luogo, un accentuato squilibrio di tipo demografico. La denatalità degli ultimi decenni ha prodotto un accentuato processo di ‘degiovanimento’: siamo ora uno dei paesi con minor incidenza quantitativa delle nuove generazioni sulla popolazione. Dalla fine degli anni ’70 ad oggi la popolazione tra i 15 e i 24 anni ha perso circa tre milioni di unità. Più in generale siamo il paese in Europa con più bassa percentuale di giovani under 25 (meno del 25% della popolazione, stranieri inclusi). Proprio come risposta alle sfide della globalizzazione e dell’invecchiamento, la Comunità Europea ha invitato gli Stati membri a considerare come elemento cruciale per lo sviluppo sociale ed economico la promozione di una piena partecipazione dei giovani nella società e nel mondo del lavoro: l’Italia è oggi uno dei paesi più lontani da tale obiettivo. In tutto il mondo sviluppato già sotto i 30 anni i laureati trovano maggiori opportunità occupazionale rispetto a chi ha titolo più basso, solo da noi ciò non avviene. I dati Eurostat evidenziano, infatti, come non solo ci troviamo con tassi di occupazione in età giovanile tra i più bassi in Europa, ma lo svantaggio relativo diventa ancora maggiore per chi ha titolo di studio più elevato”.Il nostro è un Paese, quindi, che non “punta” sui giovani. Le nuove generazioni - sostiene sempre Alessandro Rosina - sono state lasciate ai margini, e questo è ben testimoniato da quanto poco il nostro paese promuova l’autonomia dei giovani ed investa sula loro protezione sociale. Chi ha un lavoro instabile si trova non solo con maggiori incertezze legate al tipo di contratto, ma anche, paradossalmente, con salari in media più bassi e minor sostegno dal welfare pubblico. Questi squilibri non possono che spingere a favore di una prolungata dipendenza dei giovani dalle risorse dei genitori o la fuga verso migliori opportunità all’estero. In generale, invece di allineare i livelli di crescita e di sviluppo del Paese alle potenzialità del capitale umano delle nuove generazioni, stiamo incentivando i giovani a ribassare le loro aspettative e le loro ambizioni per allinearle ad un’economia votata al declino. Tutto questo è coerente con il ritratto di un paese sempre più vecchio, con un ricambio generazionale sostanzialmente bloccato e una classe dirigente poco propensa sia all’innovazione sia a rimettersi in discussione. Ma, del resto, è anche vero che i giovani stessi si sono finora poco attivati per cambiare questo stato di cose.Per “invertire la tendenza” nulla può davvero cambiare se i giovani stessi non si riappropriano dei loro desideri e non diventano unici artefici del loro destino. Se il nostro Paese è socialmente immobile, economicamente anemico, incapace di innovare e di rinnovarsi, non è solo per la miopia e all’egoismo delle generazioni precedenti, è anche perché i giovani sono diventati una forza debole e timida. Non appaiono più il motore del cambiamento. Sono una specie di ‘esercito immobile’: non c’è nessun ‘stringiamoci a coorte’ risorgimentale per cambiare il corso della storia. L’Italia deve ripartire dalle nuove generazioni. Le nuove generazioni devono ripartire da se stesse, dalla costruzione di un futuro in Italia all’altezza delle proprie qualità e ambizioni.

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